Recensione: "L'urlo e il sorriso" di Enrico Campofreda e Marina Monego

di Fabio Orrico

L'urlo e il sorrisoInteressante questo L’urlo e il sorriso, il bel libro d’esordio di Enrico Campofreda e Marina Monego. Innanzitutto per la sua struttura: un libro di racconti che, storia dopo storia, acquista l’organicità di un romanzo. E poi per l’argomento, per ciò che si prefigge di raccontare: l’italia negli anni del miracolo economico, filtrata attraverso gli occhi dei bambini. Sono loro, infatti, i testimoni scelti da Campofreda e Monego, per mostrarci l’epocale transizione, umana e storica, dalle campagne alle città. L’infanzia è protagonista assoluta de L’urlo e il sorriso e i registri passano da un lirismo crudo a un realismo senza sconti su cui però, entrambi gli autori, non rinunciano a posare una lingua cupamente fiabesca perchè, evidentemente, la storia, almeno per loro, è già diventata narrazione.
Da un lato il lazio, dall’altro il veneto. Nella cadenza dei racconti si alternano anche le notizie biografiche degli autori. Monego e Campofreda firmano separatamente i testi ma il loro lavoro testimonia una grande intelligenza di costruzione perchè non c’è cesura forte nè uno scarto troppo traumatico tra un racconto e l’altro. Si direbbe che siano riusciti ad armonizzare i loro stili, cosa di per sè niente affatto scontata.

L’urlo e il sorriso
di Enrico Campofreda e Marina Monego
Michele Di Salvo Editore

L'arte combinatoria del racconto

di Manuel Semprini

Quasi tutti quelli che scrivono, per diletto o per mestiere, si troveranno prima o poi di fronte ad un foglio immacolato o ad uno schermo bianco, che potranno suscitare in loro, a seconda del carattere e della situazione, preoccupazione, ansia persino panico. Come riempire la pagina? Quale stile usare? È meglio iniziare in medias res oppure da un antefatto? E se si esaurisce l’ispirazione?

Grazie alla sua lunga esperienza di scrittura, Luisa Carrada, in La pagina bianca: piccoli trucchi per non farsi prendere dal panico, offre un consiglio molto pratico: «per la prima stesura non preoccupatevi troppo degli aspetti formali e buttatevi», ricordando che l’«importante è lasciarsi un buon margine di tempo per la revisione, perché è lì che il vero lavoro comincia».

Oltre ad altri suggerimenti, che vi invito a leggere, Luisa Carrada afferma che immaginarsi di scrivere a un amico può essere utile per cominciare un testo (“Caro Andrea, oggi ti voglio scrivere di…”). Aggiungo che, per superare il “blocco”, spesso può risultare altrettanto utile iniziare con una domanda (“Di che cosa parla questo libro?”).

Ciononostante, l’effetto paralizzante e avvilente della pagina bianca può sempre ripresentarsi o facilmente persistere in chi scrive. Serve allora una panacea, un rimedio definitivo, un aiuto più consistente. E tale aiuto può essere rinvenuto in una tecnica compositiva che precede, in realtà, il componimento vero e proprio del testo – racconto, articolo, romanzo che sia.

Si tratta di un lavoro preparatorio in cui, intorno a un’idea o ad un tema, si andranno a collezionare nel tempo: ritagli di giornale, citazioni di altri autori, frasi o interi periodi di articoli su Internet, fonti e spunti forniti da letture casuali od osservazioni suggestive e via dicendo. Tutto il materiale raccolto verrà poi organizzato secondo una scaletta, se si desidera un’esposizione breve, oppure per capitoli, se si vuole creare un romanzo o un saggio. A questo punto, non resterà altro che combinare e trasformare, secondo il proprio stile e gusto, i vari “pezzi” in una storia sensata e unitaria.

Illuminanti su questa tecnica, sono le parole di Calvino, che, durante una conferenza tenuta nel marzo 1983 alla Columbia University di New York sulla genesi de Le città invisibili (e in seguito utilizzata come presentazione del libro stesso), spiega agli studenti come è arrivato a scrivere il romanzo:

Io nello scrivere vado a serie: tengo tante cartelle dove metto le pagine che mi capita di scrivere, secondo le idee che mi girano per la testa, oppure soltanto appunti di cose che vorrei scrivere. Ho una cartella per gli oggetti, una cartella per gli animali, una per le persone, una cartella per i personaggi storici e un’altra per gli eroi della mitologia; ho una cartella sulle quattro stagioni e una sui cinque sensi; in una raccolgo pagine sulle città e i paesaggi della mia vita e in un’altra città immaginarie, fuori dallo spazio e dal tempo. Quando una cartella comincia a riempirsi di fogli, comincio a pensare al libro che ne posso tirar fuori.
[Italo Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano, 1993, pp. V-VI]

Dello stesso avviso, e con una tecnica più moderna (nel senso che utilizza un software apposito per raccogliere ed organizzare le varie tessere che formeranno successivamente un suo libro), è lo scrittore e giornalista Steven Johnson, che illustra il suo metodo in un breve articolo, intitolato Niente più pagine bianche e tradotto sul blog di Internazionale, concludendo:

Prima mi arenavo per settimane su ogni nuovo capitolo perdendomi nel vuoto di un mare infinito. Adesso i capitoli prendono forma da un arcipelago di citazioni ispiratrici, e questo è molto meglio. Tutto quello che devo fare è costruire ponti tra le isole.

In questo consiste semplicemente il processo creativo, in un’arte combinatoria di atomi significativi sedimentatisi nel corso di peregrinazioni intorno ad un nucleo ispirato. Nasce un’idea e attorno ad essa si costruisce poi la trama, che viene infine svolta e rimpolpata con il testo, sollecitato da stimoli e riflessioni successivi.

Estremizzando il discorso, come insegna Borges nella sua classica “finzione” La biblioteca di Babele, qualsiasi testo è frutto della unione, più o meno sensata, più o meno articolata, di venticinque segni, cosicché l’universo inscritto nella Biblioteca conserva «tutte le possibili combinazioni dei venticinque simboli ortografici (numero, anche se vastissimo, non infinito) cioè tutto ciò ch’è dato di esprimere, in tutte le lingue» [Jorge Luis Borges, Finzioni, Einaudi, Torino, 1955, p. 73].

Naturalmente, questa specie di lavoro da archivista pare demolire l’idea romantica di uno scrittore in preda ad un raptus creativo frutto di improvvisa ispirazione. Lapidariamente Eco, nelle sue Postille a “Il nome della rosa” (in cui si trovano passi assai rivelatori su come ha ideato e costruito il suo primo romanzo), ci avvisa:

Quando l’autore ci dice che ha lavorato nel raptus dell’ispirazione, mente. Genius is twenty per cent inspiration and eighty per cent perspiration.
[Umberto Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano, 1980, p. 510]

Insomma, per parafrasare Fossati, la costruzione di un racconto «spezza le vene delle mani / mescola il sangue col sudore». Per questo la revisione prende la maggior parte del tempo. L’abbozzo di un’idea è solo l’abbrivio di un testo. Se lo si lascia veleggiare senza controllo, rischia di arrestarsi in mezzo al mare o, peggio, di perdersi alla deriva.

È necessario, dunque, armarsi di pazienza e di determinazione. E – verrebbe da dire – di carta e penna, per poter trascrivere le impressioni fugaci di un momento o appuntarsi quanto è stato letto o sentito di sfuggita.

Forse solo l’esperienza o la minaccia di morte, possono portare alla produzione di un’opera in tempi brevi, così come accadde a Dostoevskij, che scrisse Il giocatore in ventisei giorni, dal 4 ottobre al 30 ottobre del 1866, perché costretto ad accettare un contratto-capestro dall’editore Stellovskij, per poter pagare i debiti.

A ulteriore dimostrazione di come procede chi scrive, basti riprendere in mano un romanzo di Mann, Carlotta a Weimar, in cui si narra l’incontro fra Carlotta Buff vedova Kestner (la celebre eroina de I dolori del giovane Werther) e Goethe. Con mirabile esercizio di immedesimazione e rappresentazione, Mann entra nella testa di Goethe e, in quel lungo e straordinario flusso di coscienza che è il capitolo settimo, svela il suo genio e la sua arte, passando dalla verifica della gotta di cui soffre fino al ricordo del sodalizio con Schiller, dal rapporto quotidiano con il devoto servo Carlo alla stesura di una perizia per il granduca Carlo Augusto, suo amico e mecenate.

Dopo essersi alzato e fatto pettinare, finalmente Goethe si rivolge alla sua scrivania e ammira i tanti libri che gli forniscono le fonti e gli spunti per la sua scrittura e di qui nasce una riflessione interiore, quasi una confessione a se stesso, sulla propria creatività:

La gente stupirebbe d’apprendere che uno debba nutrirsi e puntellarsi con tante descrizioni di viaggio, e di costumi per mettere insieme un libriccino di versi e di sentenze.
[Thomas Mann, Carlotta a Weimar, Mondadori, Milano, 1980, p. 264]

Occorre penetrare profondamente un argomento per impossessarsene e renderlo agli altri con una nota in apparenza originale, occorre avere «una genialità poetica che riesce efficace quando hai elaborato dentro di te a lungo un argomento ed hai raccolto tutto quanto può servire ad una causa» [ibid., p. 265], perché «non sei capace di leggere senza venirne influenzato, fecondato o trasformato, senza sentire il desiderio di far qualcosa di simile e di giungere alla produttività attraverso all’esperienza» [ibid., p. 266].

E l’originalità? Questa è semplicemente frutto del proprio punto di vista: osservatori siamo che descrivono il mondo. Ognuno con la propria enfasi, con il proprio taglio, con la propria grazia.