Recensione: "Nuvole di drago" di Luciano Troisio

di Marina Monego

Nuvole di drago“Nuvole di drago” è il primo di una serie di volumi sui viaggi di Luciano Troisio e contiene otto reportage da paesi asiatici (Laos, Vietnam, Cambogia, Tailandia, Giappone, Cina) realizzati in periodi diversi, tra il 1991 e il 2008. Si tratta di lunghi anni di frequentazione di queste terre e di conoscenza approfondita dei luoghi e delle popolazioni.
Luciano Troisio è un infaticabile globetrotter, ma è soprattutto uno scrittore e un letterato che ama coinvolgere i lettori nei suoi itinerari di viaggio.
L’Asia costituisce per l’Autore la “cuna del mondo”, la madre di tutte le Culture e delle Religioni, è luogo affascinante e importante al quale rivolgere uno sguardo curioso e attento, rispettoso e critico dove è necessario.
Il viaggiare di Troisio è colto, intelligente, assolutamente incompatibile con lo spostarsi organizzato – tutto compreso – che conduce orde di turisti bifolchi, schiamazzanti e semianalfabeti a una visita fugace dei luoghi più belli del pianeta. Contro queste torme si scatenano il disprezzo e il sovrano distacco dell’Autore:
“…arriva una corriera di urlanti buzzurri italiani del nord che naturalmente si fanno riconoscere a miglia di distanza (quelli del sud sono ancora più buzzurri, ma non hanno la grana per muoversi, ecco perché, almeno nei siti turistici asiatici, la vera itala bifolcaggine per il momento si esporta in redazione settentrionale). Tutto in me rovina” (p.128)
Troisio non è neppure un viaggiatore freak stile anni Sessanta o Settanta: questo tipo di personaggi vengono descritti come maleducati, rozzi, fuori tempo, piuttosto sporchi, malvestiti e insopportabili. Persone che sarebbe meglio non incontrare e soprattutto non avere vicino in autobus o al ristorante.
L’Autore si sente invece spiritualmente affine a una ristretta schiera di letterati, che paiono accompagnarlo e approvarlo. “Sensazione improvvisa letteraria di essere Guido Gozzano; chissà perché noi dandy dobbiamo sempre avere a che fare col mondo volgare” (p.127)
È un viaggiare interessato sia a musei, templi, gallerie d’arte, oggetti d’antiquariato, libri (Troisio è un accanito bibliofilo, con intuizioni da segugio, che ha scovato al Prato della Valle a Padova delle cartoline postali scritte da Calvino), che ai tipi umani, studiati con interesse quasi entomologico.
Troisio è curioso dei luoghi, delle usanze, dei modi di vivere, della gastronomia locale. In fondo anche la cucina appartiene alla cultura e il modo in cui viene servito un piatto può indicare molto su chi lo prepara. Se i topi fritti suscitano un’istintiva repulsione, le varietà di frutta sono affascinanti e saporite.
Troisio è un osservatore sempre attento e calmo: da questo punto di vista il suo modo di viaggiare è ideale, perché, diluito nel tempo, non viene viziato dalla fretta e da quella nevrotica ansia del “dover vedere tutto” (senza capire niente) che caratterizza buona parte del turismo contemporaneo, ormai diventato fenomeno di massa.
L’Autore invece si sofferma, ascolta, parla con i locali, cerca di rendersi conto del loro livello d’istruzione, del loro modo di vivere.
Viaggiare diventa un esercizio per tenere desti tutti i sensi, non solo per cogliere immagini di bellezza, ma per non cadere vittima di imbroglioni sempre in agguato, specie nei confronti del turista occidentale.
Qualsiasi tipo di servizio – dai passaggi in moto agli alloggi e ristoranti fino alle prestazioni sessuali, anche con bambine –può venir offerto naturalmente a pagamento e la contrattazione è d’obbligo.
Fida compagna nei suoi spostamenti – oltre alla scrittura – è la macchina fotografica (immaginiamo che il Nostro abbia un archivio fornitissimo), quasi il corrispondente tecnologico della pittura. Troisio ha grande sensibilità cromatica, è attento alle sfumature di luce e cita spesso artisti come Canaletto o Giorgione.
La macchina fotografica gli consente di catturare quegli attimi che non sempre la sola scrittura riesce a cogliere e si rivela un ottimo mezzo per allontanare quelle persone che s’avvicinano troppo e potrebbero scatenargli un attacco di oclofobia. Presso i templi di Angkor viene accostato da due monaci buddisti, curiosi di leggere la sua guida, lui cerca di rispondere cortesemente, spiega in quale punto del tempio si trovano e poi chiede loro di poterli fotografare, così si allontanano a distanza di sicurezza.
Eppure l’interesse per il corpo umano è una costante: “Sto sempre più scoprendo il volto umano, il corpo umano, la sua indefinibile complessità di linguaggi, la sua bellezza instancabilmente sconosciuta che deve essere interpretata come preziosa latrice di messaggi specie involontari”.(reportage da Ubud del 15 luglio 2008, apparso lankelot.eu)
Viaggiare comporta naturalmente non pochi disagi, oltre alle sistemazioni talvolta spartane negli alberghi e al possibile ininterrotto chiacchiericcio delle cameriere, al frastuono per lavori di prima mattina, alla vicinanza occasionale di persone sgradite, ci sono gli imprevisti sempre in agguato.
Angosciosa è la nottata con diluvio tropicale all’isola di Ko Ciang (Tailandia). Nel bungalow vicino alla foresta nel quale il Nostro è alloggiato dapprima s’intrufolano roditori – decisi a demolirlo – poi, a generatore di corrente spento, si scatena una terribile tempesta, le palme minacciano di crollare sull’edificio, si sentono fortissimi colpi contro le pareti, probabilmente noci di cocco sbattute dal vento, infine, in piena notte, la porta si spalanca e il narratore è costretto ad uscire per richiuderla, bagnandosi tutto.
Epico il rientro nella civile e colorata Tailandia dopo la visita ad Angkor, nella desolata e misera Cambogia: la strada risulta interrotta per il crollo di un ponte e così il pulmino è costretto a un’allucinante deviazione su strade semi-allagate e piene di buche. Saranno necessarie nove ore per percorrere 130 Km.
Osservando i periodi degli spostamenti si nota che si svolgono sempre in corrispondenza dei nostri mesi invernali, che in Oriente coincidono con la stagione più secca.
Questo implica trascorrere all’estero il periodo natalizio. L’Autore non si dimentica delle ricorrenze e scopre, con gradita sorpresa, in Vietnam “moltissimi presepi nei cortili all’aperto, anche a grandezza naturale o quasi, siamo in attesa del Natale e l’imprevista presenza ha un sapore di nostrano che mette regressiva triste enorme felicità”. (p.183)
Come ben osserva Ruffato nella prefazione Troisio non rinuncerebbe mai al nostos, al ritorno nell’Occidente, laddove si collocano le sue radici umane e culturali. Nei suoi scritti, i richiami al Veneto, a Padova non mancano mai.
Viaggiare non significa disperdersi, né perdersi. Troisio, forte della compagnia di illustri letterati come Gozzano, Comisso, Manganelli, rivendica e ricorda la propria identità.
Quanto ai contatti con gli amici, nei reportage più recenti compare la mail, privilegiato e rapidissimo mezzo di comunicazione, riservato a una ristretta cerchia di fidati, con i quali l’Autore condivide le sue riflessioni in tempo reale.
Sempre presente negli scritti di Troisio la sua caratteristica ironia, rivolta agli asiatici come agli occidentali, alle “galline padovane” come agli accademici, ai turisti bifolchi, bubulchi vocianti come agli orientali stolidi e pigri. È un’ironia che a volte cela il tragico (si ride per non piangere) ed è un modo per far partecipe il lettore delle sue avventure, ammiccandogli. Chi scrive apprezza particolarmente certe osservazioni sferzanti e rapide, di fulminea efficacia.
Non è possibile esercitare ironia, ma solo rispettoso silenzio, riguardo gli orrori dei regimi comunisti: in Cambogia i khmer rossi hanno torturato e ucciso due milioni e mezzo di connazionali, il Laos, il Vietnam sono ancora sotto dittatura. L’occhiuta sorveglianza del partito traspare nei controlli dei voli, nella burocrazia noiosa, costosa, intralciante, ottusa, nell’edilizia, nella povertà, nello scarso livello d’istruzione degli abitanti. L’Autore ha visitato i campi di sterminio cambogiani e il famigerato Liceo S21 a Phnom Pehn, ma ne accenna soltanto. Scriverne è impossibile. “Affiorano strutture profondissime, che fortunatamente ignoriamo di avere all’interno di noi stessi. Sentimenti talmente inquietanti e contradditori che è molto pericoloso analizzare”. (p.92)
Allo stesso modo si accenna soltanto alla miseria, allo sfruttamento dei bambini, alle malattie, agli storpi e deformi che erano comparsi anche in “Strawberry- stop”.
Non è nelle intenzioni dello scrittore realizzare un’inchiesta giornalistica di denuncia, che richiederebbe altro approccio e altro stile.
Per Troisio viaggiare è creare, la sua scrittura non nasce dalla stanzialità, ma dal movimento, viaggiare è scoprire idee per nuovi racconti, non realizzare una cronaca di eventi.
“Voglio girare ancora per Ko Kong, documentarmi, fotografare, fissare scenari per un ipotetico racconto, che però non riesce ad assumere una trama. Credo che il protagonista sia lo spazio vacuo, la larghezza che proviene da lontano, che guarda o vede lontano, trasmette un fischio poco decifrabile”. (p.79)
Le immagini della bellezza – brevi, fuggenti – da sole ripagano e danno senso alle fatiche del viaggio, è una bellezza riservata ai pochi in grado di coglierla, come sempre. Emblematico e carico di suggestioni è il pellegrinaggio ai templi di Angkor in Cambogia. L’Autore sottolinea i vantaggi del viaggiare da solo, in libertà, senza esser costretto ai ritmi grotteschi delle comitive schiamazzanti e percepisce una sublime affinità con una solitaria ragazza francese, forse una scrittrice, incontrata alla porta di Angkor Thom, da sola, mentre prende appunti. Solo nel silenzio si può cogliere l’essenza dell’arte e il fascino melanconico di queste gigantesche rovine.
Tanto quanto la penisola indocinese è colorata e giovane, così il Giappone risulta negativo. Tokio è una città “fredda, irrazionale, banale, insulsa, costosa”.
La metropolitana è complicatissima, i cartelli sono solo in giapponese, le scale mobili esistono solo in discesa, non ci sono indirizzi, in compenso campeggiano centinaia di garitte con i vigili messi lì apposta per aiutare i cittadini.
Il senso di spaesamento è totale, i giapponesi appaiono pettegoli ed eccessivamente cerimoniosi, l’unica bellezza si manifesta nei giardini. Con un sospiro di sollievo l’Autore lascia queste grigie contrade.
Lo stile, a volte rapido, secco, in genere è narrativo, apparentemente colloquiale, in realtà è molto raffinato, elegante e contiene sprazzi di versi e riferimenti dotti, probabilmente il testo può venir letto a vari livelli a seconda del grado di cultura.
Tra i reportage, costituisce un unicum il racconto Hong Kong- Doppio Decollo, viatico per le pagine sulla Cina, eponime dell’intero libro.
Troisio ci racconta dei suoi quattro, faticosi anni (1987-92) d’insegnamento all’Università di Shangai, dell’ottusità del regime, delle aule vergognosamente prive di riscaldamento durante l’inverno, della sporcizia e maleducazione dei cinesi, delle censure culturali e dell’ignoranza, evoca la positiva figura della scrittrice Edoarda Masi, alla quale succedette nell’insegnamento. Gli anni cinesi furono durissimi e importanti, tanto da spezzare in due la vita dell’Autore. Ebbero anche aspetti e incontri positivi, ma alla fine il freddo, la sinusite, la depressione, il disgusto ebbero il sopravvento e lo spinsero a trasferirsi a Bratislava.
E dunque il seguito ai prossimi reportage.

EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Luciano Troisio (Monfalcone, Go, 1938), ricercatore del Dipartimento di italianistica dell’Università di Padova, ha insegnato nelle Università di Pechino, Shangai, Bratislava, Lubiana. Ha pubblicato numerosi volumi dedicati alla poesia: By logos, esproprio transpoetico, 1979; Folia sine nomine, 1981; e La Trasparenza dello scriba, 1982 (con Cesare Ruffato); La poesia nel Veneto, 1985; Ragioni e canoni del corpo, 2001; Linee odierne della poesia italiana, 2001. Inoltre ha pubblicato le raccolte poetiche: L’angelo alle spalle, 1960; Anamnesi in tre versioni, 1965; Parigi nord-sud, 1966; Indicativo imperfetto, 1968;Precario, 1980; Persistenza del cavallino, 1984; I giardini della maharani, 1986; Le poetesse cinesi, 2000; Three or four girls, 2002, Strawberry-stop (2007).
In dialetto altopadovano:Drìoghe ai poeti, 2001.
In prosa:Tirtagangga e varie sorgenti, 1999; Viaggio a Ko Ciang2001;Nuvole di drago, 2003; La ladra di pannocchie 2004.
Studioso, globetrotter, flaneur, i suoi campi d’attenzione sono nell’ordine: la scrittura, l’Asia, l’immagine (specialmente la fotografia e la grafica d’arte). Sue opere sono state illustrate da Emilio Baracco, Giovanni Barbisan, Andreina Bertelli, Renzo Biasion, Mino Maccari, Cesco Magnolato, Walter Piacesi, Gianni Poggeschi, Orfeo Tamburi, Hugo Wulz, Tono Zancanaro.
Luciano Troisio, Nuvole di drago. Otto itinerari asiatici, Piombino, Il Foglio 2009. prefazione di Cesare Ruffato.

Troisio in lankelot.eu: http://www.lankelot.eu/index.php?archivione=1&k%5B%5D=Troisio

Recensione: "L'urlo e il sorriso" di Enrico Campofreda e Marina Monego

di Fabio Orrico

L'urlo e il sorrisoInteressante questo L’urlo e il sorriso, il bel libro d’esordio di Enrico Campofreda e Marina Monego. Innanzitutto per la sua struttura: un libro di racconti che, storia dopo storia, acquista l’organicità di un romanzo. E poi per l’argomento, per ciò che si prefigge di raccontare: l’italia negli anni del miracolo economico, filtrata attraverso gli occhi dei bambini. Sono loro, infatti, i testimoni scelti da Campofreda e Monego, per mostrarci l’epocale transizione, umana e storica, dalle campagne alle città. L’infanzia è protagonista assoluta de L’urlo e il sorriso e i registri passano da un lirismo crudo a un realismo senza sconti su cui però, entrambi gli autori, non rinunciano a posare una lingua cupamente fiabesca perchè, evidentemente, la storia, almeno per loro, è già diventata narrazione.
Da un lato il lazio, dall’altro il veneto. Nella cadenza dei racconti si alternano anche le notizie biografiche degli autori. Monego e Campofreda firmano separatamente i testi ma il loro lavoro testimonia una grande intelligenza di costruzione perchè non c’è cesura forte nè uno scarto troppo traumatico tra un racconto e l’altro. Si direbbe che siano riusciti ad armonizzare i loro stili, cosa di per sè niente affatto scontata.

L’urlo e il sorriso
di Enrico Campofreda e Marina Monego
Michele Di Salvo Editore

Recensione: "Il pane di ieri" di Enzo Bianchi

di Marina Monego

Fonte: www.lankelot.eu

Il pane di ieriEl pan ed sèira, l’è bon admàn. Il pane di ieri è buono domani.

Proviene un grande senso di pace – lo stesso che si respira a Bose – da queste pagine di Enzo Bianchi, che della Comunità Monastica di Bose è il priore e il fondatore.
È come se padre Enzo invitasse alla sua tavola i lettori e raccontasse loro, con la sua voce profonda, i ricordi della sua infanzia e giovinezza, dei suoi genitori, delle persone più significative per la sua formazione, condividendo così una sua dimensione più familiare e intima.
Giunto oltre i sessant’anni questo straordinario maestro spirituale dall’enorme cultura e dalla saggezza profonda, sente il desiderio di guardare al proprio passato sia per cogliere le chiavi di lettura per il presente e il futuro, sia per manifestare l’amore per la sua terra e la gratitudine per la ricchezza di umanità ricevuta.
Cresciuto in un paese del Monferrato negli anni dell’immediato dopoguerra, prima del boom economico, il Priore ricorda la vita dura, assediata dalla miseria, scandita dai ritmi del lavoro agricolo. Gli affetti erano austeri e spesso tra le mura domestiche si manifestava una violenza verbale, psicologica prima ancora che fisica, accentuata da solenni ubriacature. Violenza che nessuno immaginava neanche di denunciare.
Non c’è in queste pagine una visione idilliaca della vita contadina di allora, segnata dalla solitudine, non si vive infatti una realtà comunitaria e chi ha un dolore troppo grande per poter essere condiviso durante le veglie delle serate invernali se ne sta da solo a bere fino ad addormentarsi con la testa sul tavolo e la radio accesa.
Eppure non c’è asprezza in questi ricordi, ci sono valori, degli autentici comandamenti laici che hanno contribuito alla formazione del narratore e costituiscono tuttora una degna “coda” ai comandamenti consegnati a Mosè.
Non vi sono rimpianti o desiderio di ritorno al passato, si percepisce una sapienza antica, una pacatezza, un equilibrio che sa fare la pace anche con ricordi pesanti come quello della morte della madre, avvenuta quando il piccolo Enzo ha solo otto anni. Il suono della campana dell’agonia – i momenti della vita allora erano scanditi dalle campane, così tutti li condividevano – lo richiama verso casa mentre è fuori a giocare e la madre lo saluta per l’ultima volta, dicendogli: “Vedrai, io di là farò più di quanto ho potuto fare di qui per te…”
Di ogni gesto viene colta la dimensione antropologica profonda, in modo da non banalizzarlo mai e da arricchirlo di senso: ecco allora che cucinare per un’altra persona significa “testimoniargli il nostro desiderio che egli viva e condividere la mensa testimonia la volontà di unire la propria vita a quella del commensale”. (p.36)
La cucina e la tavola diventano “epifania dei rapporti e della comunione” e preparare una pietanza significa scegliere i suoi ingredienti, essere consapevoli che provengono da luoghi e genti diverse e che opportunamente dosati e cucinati convergeranno tutti per la creazione di una sinfonia di gusti.
Preparare un ragù può essere davvero un’esperienza di riflessione….e la bogna càuda quasi un’opera d’arte.
Ciò che trasforma un tavolo in una tavola è l’umanità, la condivisione, il raccontarsi, perché “nessuna vicenda della vita era insignificante per gli altri”. Si tratta di dimensioni vive in quella società che oggi tendiamo a perdere e che invece contribuiscono ad arricchire di senso la nostra esistenza.
Un’attenzione particolare viene rivolta al pane e al vino, così importanti anche nella tradizione cristiana. Sono cibi antichi nei quali coltura e cultura s’incontrano e s’armonizzano perfettamente.
“Mia madre deponeva sul tavolo ogni mattina una grìssia del “pane di ieri”, un fiasco di vino, un orciolo di olio e una saliera, tutto ricoperto da un tovagliolo da lei ricamato con la scritta: “l’olio, il pane, il vino e il sale siano lezione e consolazione”.
È un’immagine bellissima e semplice, un mondo è racchiuso in quei cibi e nel modo di presentarli.
La vigna viene colta nella sua bellezza e poesia attraverso le stagioni, è un duro e paziente lavoro coltivarla, attendere che porti frutto. È come fare un patto con la terra e vi è sempre la paura delle grandinate, capaci di devastare l’intero raccolto in pochi minuti. Ecco allora che non è insolito, in caso di temporali estivi, vedere il parroco avanzare tra tuoni e fulmini fendendo l’aria con l’aspersorio e il chierichetto – quasi sempre il piccolo Enzo, che abitava di fronte alla chiesa – recitando preghiere: per Deum verum, per Deum vivum…!
Colpiscono molto invece i maestri d’umanità più determinanti per il priore: figure semplici, umili, solitarie, anonime.
Troviamo il vicino di casa Pinot, l’ortolano, che affitterà al giovane Enzo quattordicenne un fazzoletto di terra da coltivare per suo conto.
“l’orto è una grande metafora della vita spirituale: anche la nostra vita interiore abbisogna di essere coltivata e lavorata, richiede semine, irrigazioni, cure continue e necessita di essere protetta, difesa da intromissioni indebite. L’orto, come lo spazio interiore della nostra vita, è luogo di lavoro e di delizia, luogo di semina e di raccolto, luogo di attesa e di soddisfazione. Solo così, nell’attesa paziente e operosa, nella custodia attenta, potrà dare frutti a suo tempo”. (p.95)
E poi compaiono Enrico, il sediaio e il “Muretin”, figura conosciuta agli inizi della Comunità di Bose e rimasta a condividere la vita dei fratelli.
Trapela una grande umanità e un grande amore per l’essere umano da questi ritratti e un’attenzione speciale per ciascuno, riconosciuto nella sua originalità di persona, importante per sé stessa quale creatura.
La vasta cultura del maestro spirituale rimane sottesa, qui s’intrecciano sapienza biblica e saggezza popolare, fondamenti cristiani e fondamenti laici provenienti dalle proprie radici e rivisitati con sguardo aperto e sempre attento a non farne una barriera di chiusura alle altre culture.
Con pagine più riflessive sul passare dei giorni, la vecchiaia e la morte si concludono i racconti di padre Bianchi: sono considerazioni umanissime ed equilibrate, di serena accettazione della realtà.
“Ma il mio compito, il compito di ciascuno di fronte alla vecchiaia che incalza non è prevederla bensì prepararla, colmando la vita di quanto può sostenerci fino alla morte”.

Recensione: "Avana killing" di Gordiano Lupi

di Marina Monego

Fonte: www.lankelot.eu

Avana killingUna giovane donna sola, Isabel, è disposta a tutto pur di salvare la vita del suo unico figlio finito in coma in situazione misteriosa. Lui è quel che le rimane dopo che suo marito ha preferito fuggire da una Cuba oppressa da quel regime comunista nel quale lui stesso aveva creduto. Isabel ,pur essendo religiosa, finisce per lasciarsi convincere a ricorrere alle oscure pratiche di un santéro per aiutare il figlio, che si sveglierà, ma sembrerà una persona diversa…..
Contemporaneamente un feroce serial-killer agisce a L’Avana: le sue vittime sono tutte giovani donne carine, che stupra e uccide senza derubarle. A dargli la caccia l’ispettore Gerardo Abril, uomo onesto e serio, che non si sente sempre all’altezza del compito e soprattutto preferirebbe una tranquilla routine a tutte quelle noie e alle telefonate e visite intimidatorie del ministro, arrogante esponente della burocrazia castrista.
“Avana Killing” è un noir ibridato con il genere giallo: ha gli elementi oscuri e tenebrosi del noir, ma segue il ritmo delle indagini come un giallo, è un libro avvincente con il grande pregio di uno stile chiaro e comunicativo. Riesce a sorprendere e a ribaltare le prospettive del lettore proprio quando pensa di essersi fatto un’idea sulla risoluzione della vicenda.
Il romanzo non è soltanto questo: ambientato a L’Avana, rivela il chiaro intento di offrire uno spaccato della vita a Cuba negli anni del “periodo speciale”, anni di ristrettezze economiche, di difficoltà per la popolazione, costretta ad arrangiarsi alla meglio per sopravvivere in un paese in cui manca tutto, o meglio si trova tutto solo a suon di dollari. I cubani hanno così imparato a sfruttare al massimo il turismo, sono costretti a vendersi per campare, a compiere piccoli furti a danno dello Stato, che li priva della possibilità di un miglioramento personale.
La prostituzione, il mercato nero fioriscono, mentre l’informazione, controllata dal regime, di tutto questo non parla, così come tace sulla delinquenza sempre più diffusa, in modo da non alterare l’immagine idilliaca dell’isola necessaria ad attrarre i danarosi turisti stranieri, rimasti l’unica risorsa di un’economia sfasciata dal comunismo. La libertà non c’è più a Cuba da molto tempo.
“Cuba moriva di miseria e di corruzione. L’orgoglio della sua gente veniva umiliato dalla necessità di vendersi ai turisti per sopravvivere. Ai margini di quell’avvilente mercato di dollari, di sesso, di lusso smodato che contrastava in modo stridente con i disagi quotidiani della popolazione, proliferava un sottobosco di traffici illeciti, sporchi, miserabili”.(p.82)
In questa situazione lo sguardo dell’Autore si posa con simpatia e affetto sui cubani –a quest’isola e alla sua gente è indissolubilmente legato per ragioni biografiche – un popolo fiero, vivace, colorato e pieno di risorse. Lupi dimostra di conoscerli bene e vuole, anche con questo libro, mostrarne gli usi, le credenze, la cucina, le abitudini.
I personaggi sono ben delineati nei loro vari aspetti. La loro religiosità mescola cattolicesimo e riti antichissimi provenienti dall’Africa. E’ la santéria con i suoi riti, la magia nera, i santi chiamati con nomi di dei primitivi. Difficile a definirsi in breve, è una forma di sincretismo religioso che ha creato non poche difficoltà pastorali alla chiesa cattolica, già osteggiata dal regime, almeno fino alla visita di Giovanni Paolo II.
Anche una donna di fede coma la protagonista subisce l’influenza della santéria.
In Lupi l’ambientazione caraibica non è dettata da un facile esotismo, ma da autentica passione e dal desiderio di denunciare al mondo la gravità della situazione di Cuba, un’isola splendida, un vero gioiello naturalistico – come dimostrano le rapide pennellate con cui i suoi paesaggi vengono descritti – che meriterebbe ben altra sorte.
Difficile dire altro senza rivelare importanti dettagli della trama e rovinare il gusto della lettura: “Avana Killing” è un libro da gustare tutto d’un fiato alla ricerca non solo del colpevole, ma dello spirito dei luoghi in cui è ambientato.