L'ubriaco e la fiamma

di Manuel Semprini

Il sogno di un ubriaco, perso dietro al conto dei lampioni, è il sogno di una fiamma che vacilla nella notte. Entrambi non vogliono spegnersi all’alba e continuano a prolungare l’agonia di una vita che non può durare che il tempo di uno sbadiglio.
L’ubriaco vigila lungo le strade male illuminate della coscienza. La fiamma brucia la sua unica possibilità di esistere al di fuori del tempo. Ed entrambi sognano. Sognano di luci perenni, luci che si divincolano tra le mani, energiche e determinate, dell’oscurità.
La fiamma vorrebbe trascendere la sua effimera condizione. Desidera librarsi nel vuoto, senza appigli e freni. L’ubriaco ha paura della veglia, della sua ipocrisia. Vorrebbe spiccare il volo con leggere ali etiliche, per non ricadere nell’abisso degli scacchi. Lui non si sente un pedone e neppure una torre. Rifugge il raziocinio, la logica, lo svolgersi quieto e lineare delle strategie di gioco. La vita è un gioco non suo: un gioco oramai solo nel nome.
Lei, la fiamma, vorrebbe seguire le peregrinazioni brancolanti dell’ubriaco e illuminare così fiocamente il suo cammino da non concedergli il passo. Vincolare l’altro le darebbe un pallido sollievo, il sollievo che si scambiano gli incarcerati nei giorni sempre uguali.
L’ubriaco non si avvede della fiamma, della sua unica compagna, sincera e baluginante. Egli cammina ignaro di se stesso e di lei, eppure è felice per una gioia agrodolce che appesantisce il suo alito. Crede solo alla bottiglia piena, all’offerta di un veloce e caldo oblio. Alla bottiglia vuota non crede, no: è un rimprovero, un richiamo alla falsità e alla tracotanza diurne. Forse, se la scorgesse nel buio della sua mente obnubilata, l’ubriaco si avvicinerebbe alla fiamma per parlarle.

L’UBRIACO: “Sorellina cara, mia tenera fiammella, riscalda questo povero cuore errante. Sono ore, ore lunghe di affanni e solitudine, che vago senza sapere. Non so se fidarmi della tua tiepida e piccola luce. Riscaldami però, tu che vivi con me questa notte senza bestemmie e misericordia. Non lasciarmi solo piccola mia.”

LA FIAMMA: “Tu non mi conosci, non conosci la mia fragilità. Vedi soltanto il fuoco, l’illusione di un momento. Tu, sconosciuto viandante, domani vivrai, mentre io fra poche ore potrò scaldare solo i morti. Torna a casa, lasciami qui alla mia solitudine. Non voglio che tu colga l’odore dello stoppino arso. Non voglio essere vegliata e non voglio bruciare per qualcuno.”

L’UBRIACO: “Quanta tristezza sento nelle tue parole, fiammella cara. Mi rimproveri la mia lunga vita, ma non sai quanto io desideri poterla scambiare con la tua e così spegnermi infine. La bottiglia mi dà conforto, è vero, ma non è mai sufficiente. Domani io vivrò – hai ragione. Ma che vita è la mia?”

LA FIAMMA: “Pecchi di troppa considerazione verso te stesso. Sei accecato, non dalla mia debole luce, bensì dalla tua presunzione che ti convince dell’unicità dei tuoi problemi. Se ti rendessi conto delle sofferenze altrui, non avresti più bisogno della bottiglia e del suo sguardo ammiccante e commiserevole. Non cercheresti l’abbraccio illusorio di una fiamma.”

L’UBRIACO: “Sei crudele con me sorellina. Pensi che il mio stato penoso sia presunzione, che io trascini i miei giorni e le mie notti con la disperazione dei folli, di chi non sa più distinguere il vero dal falso. Se tu potessi scendere dal tuo piedistallo di cera e di latta, vedresti allora da vicino la mia miseria, la mia nullità. La speranza ha abbandonato questo corpo: son egro e non soltanto ebbro. Eppure, devo riconoscere la mia finzione. Ma intendimi bene: io fingo solamente quando sono sobrio o mi reputano tale. Mi nascondo proprio nell’istante in cui tutti mi vedono: vivo all’ombra di me stesso, sottraendomi alla luce degli altri.”

LA FIAMMA: “Non comprendo la tua sofferenza, mi pare immotivata. Sei tu che fingi, non gli altri. Hai bisogno dell’alcol per essere vero, mentre tutte le persone che vedi o conosci si arrabattano veramente per arrivare in fondo alla giornata. Qualcuno non ci riesce, qualcun altro si lamenta, ma tutti si riconoscono fratelli di sventura. Anche se individualisti, gli uomini non dimenticano mai la loro origine comune e, sia pur non amandosi, si aiutano o si confortano a vicenda, perché soffrono della loro natura imperfetta e caduca. Tu vuoi essere l’eccezione, vuoi distinguerti. Ti ritieni diverso, ma la tua diversità non ha radici profonde, in realtà si basa su un modo di sentire superficiale ed egoistico. Devi tornare alla veglia, non assopito, ma aprendo effettivamente gli occhi e la mente al mondo che ti circonda. Riscoprirai allora, come un bambino, il piacere dell’uno e del molteplice: il mondo è unico nella sostanza e vario nelle forme apparenti.”

L’UBRIACO: “O insomma, smettila! Non accetto ramanzine da una giovane e sfrontata fiammella, vergine a qualsiasi esperienza e dunque priva di discernimento. Stai abusando della mia disponibilità al dialogo. Forse è meglio che parli a me stesso e al buio. Forse è meglio, come mi dicesti tu all’inizio, che ti lasci qui a consumare ciò che ti rimane della tua breve, invidiosa e indistinta vita. Così né tu né io perderemmo tempo. Del resto, è probabile che tu sia soltanto il frutto del vino e della solitudine; magari un frutto ancora acerbo, in cui io ho racchiuso i rancorosi risentimenti che mi affliggono. Una cattiva e svinata coscienza, ecco che cosa sei.”

LA FIAMMA: “Ti sbagli, mio tristo personaggio di una commedia non data. Non sono la tua coscienza e neppure lo vorrei essere. Io sono quel che sono: una fiamma. Non posso essere altro che queste gocce ambrate di cera e questo fumo nero e denso che sale verso le stelle. Io sono il mio tempo, che scorre inarrestabile scivolandomi addosso: è tempo che brucia. Tu invece chi sei?”

L’UBRIACO: “Un ubriaco… Semplicemente un ubriaco che discorre con un delirio.”

LA FIAMMA: “E domani?”

L’UBRIACO: “Un uomo sobrio e onesto. O almeno così dovrei essere in apparenza.”

LA FIAMMA: “E ieri?”

L’UBRIACO: “Un disperato, uno che si era rassegnato a sopravvivere. Ieri non avevo futuro perché non conoscevo il mio passato. Oggi non so se arriverò a domani. In effetti, non so chi sono. Lo intuisco a grandi linee, sento ‘qualcosa’ che mi chiama da lontano, ma è tutto confuso e indeterminato. Vorrei ma non posso, potrei ma non voglio. Devo, solamente questo sono: devo. Mi sento in trappola come un piccolo e spaurito numero dentro ad una delle innumerevoli caselle che costituiscono una griglia senza fine. Non c’è via di uscita, a meno che…”

LA FIAMMA: “A meno che tu non venga cancellato da una mano amica e benevola. Potrebbe essere la tua mano o quella di un altro, non ha importanza. Finiresti di soffrire, ma credi davvero che sia diverso dopo? Potresti ritrovarti in un altro schema a riempire per l’eternità un’altra casella. È questo ciò che vuoi? Non preferiresti emanciparti da qualunque casella che possa rinchiuderti?”

L’UBRIACO: “Certo, ma come fare? Sembra che non mi sia concessa tale possibilità. Purtroppo faccio parte del meccanismo universale. E può una parte uscire dal tutto che la contiene? Può un granello di sabbia diventare deserto? Possono i miei occhi illanguiditi enumerare ogni increspatura del mare al tramonto? Può la foglia ergersi al di sopra dell’albero e sorridere della sua piccolezza? No, non può farlo. Alla foglia è permesso l’unico conforto dello staccarsi dal ramo e del cadere al suolo; in una parola, del morire. Ma essa non sa di essere stata solidale con quel ramo, che dovrebbe avversare con somma ripugnanza l’abbandono ed aborrire il contatto fatale col terreno. Io, invece, lo so. E questo sapere mi dispera. Ogni mia azione viene annichilita, perdendo di valore. Nel contempo, il mio coatto ed estenuante agire assume un significato improprio, posticcio, mendace. Non posso scappare e allora mi illudo di essere libero. Sono determinato e allora cerco di scappare, magari innaffiando il dolore con il dolce vino. Sono una parte che sa di esserlo, una ferita che squarcia il limpido sereno del cielo.”

LA FIAMMA: “Povero ubriaco, pover’uomo. Invece di farti forte di ciò che sai e di utilizzarlo per andare oltre, ti rassegni a constatare l’ovvio e a farti invischiare da questa semplice riprova della tua presunta superiorità sulle cose. Sei mobile, eppur fermo; sei libero, eppur schiavo; sai, eppure ignori. Ti potrei offrire l’agognata soluzione ai tuoi pervertiti dilemmi, ma sono certa che resteresti sordo ad essa, volgendoti di nuovo al tuo fasullo e tormentato io. E poi non c’è più tempo, il mio sta già scadendo.”

L’UBRIACO: “No, non vanificare proprio ora la mia attesa. Se conosci la verità, il mezzo per raggiungerla, dimmelo. Ti prometto che ascolterò attentamente.”

LA FIAMMA: “Promessa di ubriaco…”

L’UBRIACO: “Guarda, adesso butto via la mia tanto amata quanto disprezzata bottiglia e poi sarò pronto a qualunque prova alla quale tu vorrai sottopormi. Sono così morto dentro che mi aspetto follemente di essere vivificato da te, da una mia presuntuosa proiezione.”

LA FIAMMA: “Come posso aiutarti se non mi accetti, se non credi ancora alla mia esistenza?”

L’UBRIACO: “Hai ragione, sono uno stupido, una stolida e solipsistica creatura figlia di uno scherzo ben riuscito. Perdona la mia arrogante egolatria. Ora sono davvero pronto al tuo insegnamento.”

LA FIAMMA: “È tardi ormai. Mi sto spegnendo. Avremmo dovuto cominciare molto prima. Forse in questo istante, l’ultimo per me, saresti predisposto a udire le mie illuminanti parole, ma si vede che il tuo destino è quello di essere sempre fuori tempo. Comunque, serba memoria del mio monito e non ti abbattere. Sei arrivato a capire che esiste una possibilità, seppure sia tuttora avvolta dal fumo. Cercala – le vie per appropriarsene, anche se non sembra, sono molte. È probabile che tu trovi la tua via. Io non posso più indicartela. Addio…”

L’UBRIACO: “Addio mia vera compagna, addio mia fulgida speranza. Piango la tua dipartita e, con essa, la mia condizione. Obbligato a un viaggio che rinnova il dolore, intravedo la direzione ma non la meta. Dal virtuale al possibile, il passaggio è tuttavia imperfetto, è nondimeno drammatico nella sua concreta, se non definitiva, impraticabilità. È giunto forse per me il momento di andare, di partire col mio fardello di inconsapevole e mesta esistenza. Oppure mi fermerò sotto un albero a far compagnia alle fragili e raggrinzite foglie cadute – io che mi sento una foglia del mondo.”

L’alba splende: il sogno è infranto. L’ubriaco raccoglie la bottiglia scheggiata e s’incammina, impotente e sconsolato, verso il declinare del suo sole, lungo la strada dell’ordinario. Della fiamma non resta che il ricordo, dell’alcol la nausea.
Un giorno, forse, ci sarà redenzione, un leggero vorticare in verticale di estasi e felicità. Ora, senza dubbio, c’è soltanto il dannato dipanarsi orizzontale del presente, un filo interminabile di perdizioni e vacuità.

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