Simone Cerlini: “Il fischio dentro ai tubi”

Simone Cerlini nasce a Reggio Emilia, nel 1972. Ha pubblicato: Andreina delle frottole (Guaraldi, 2004), Il profilo dei lupi (Giraldi Editore, 2008), Segrete (Prospettiva Editrice, 2011), La ragazza che ballava sui cornicioni (Feltrinelli, 2015). Questo racconto è tratto dalla raccolta Voci da un paese in guerra, ancora inedita.
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Recensione: "Easter parade" di Richard Yates

di Simone Cerlini

Easter Parade
, come tutti i libri di Richard Yates, è un libro necessario. Sarah ed Emily sono due sorelle nell’America del novecento. Sono entrambe marchiate dalla colpa di origine e dal destino di nascita: il divorzio dei loro genitori e l’irrequietezza malata della madre. Sarah, la bella, si sposa presto. Vive in campagna, ha tre figli e un marito che la maltratta fino alla violenza fisica. Emily, l’intelligente, studia. Ha diverse relazioni con uomini incompiuti e dannatamente affascinanti. Lavora con discreto successo per una società di comunicazioni, fino ad una crisi personale che le fa perdere tutto. Si ritrova sola, senza lavoro, senza soldi. Easter Parade è la storia di due fallimenti. Non esiste riscatto, non esiste lieto fine, non esiste messaggio, o retorica. Richard Yates mette in scena la verità, con franchezza, con ostinazione.

Easter Parade
è dunque prima di tutto un libro sulla mancanza di coraggio. Assistiamo in trecento pagine dense e scorrevoli alla parabola della rana bollita. E’ una storia antica. C’è una rana che nuota pigramente in un grosso contenitore d’acqua. Sotto viene acceso un fuoco, l’acqua si scalda, dolcemente, è piacevole nuotare, la rana è pervasa da una meravigliosa sensazione di benessere. L’acqua si scalda sempre di più. La rana si intorpidisce, poi muore. Bollita. Basterebbe fare leva sulle zampe posteriori, saltare con tutta la potenza di cui siamo capaci, schizzare fuori, fuggire, dire: “Basta!”. Ma ciò che accade a Sarah ed Emily è che vivono nel laccio soffocante di momenti di speranza, vivono nella droga di un sogno posticcio, si circondano di alibi. Non guardano in faccia alla realtà, se la raccontano. Sarah accetta una vita di segni esteriori, finta. Si rintana nei suoi sogni, che sa in partenza non porteranno a nulla. E’ sopraffatta dalla paura del cambiamento. E’ un’icona dell’immobilità. Si maschera dietro al “si dice”, al “si fa così”. Non si permette alternative, o non cerca le risorse per percorrerle. Le sue fughe sono tentativi abbozzati, sono gesti simbolici e timidi, che conducono inesorabilmente al ritorno. E così accade a noi. Ci accucciamo in una realtà anestetica. Ci ripetiamo: “Fin qui tutto bene”, come nel film La haine di Mathieu Kassovitz. Non va bene niente. Siamo un branco di sfigati e sfruttati che vivono la frustrazione senza reagire.

Ma la lucidità di Yates non si ferma qui. Il coraggio è ancora una volta un alibi. Emily ha il coraggio, di scegliere, di prendere in mano la propria vita. E precipita inesorabilmente nella china del fallimento. Lo fa perché il suo “basta!” non ha progetto alcuno. Vive una vita di fuga. Dalla madre, dal grigiore, dalla superficialità, dalla solitudine, dalla dipendenza. Emily si chiede continuamente cosa non vuole. E trova il disagio ovunque, perché ovunque lo cerca. Ciò che non si chiede è cos’è il suo vero desiderio. Ciò che non si permette è di darsi un progetto. Emily sopravvive, non dà un senso alle cose, non le mette in una prospettiva. Il suo cinismo maturo e razionale la perde. Il suo elevarsi al di sopra degli altri, per vedere la nullità delle nostre umane aspirazioni, la condanna. Emily ha il coraggio, ma non ha la forza di crederci davvero, di crederci fino in fondo, di scommettere sul futuro, di affrontare ciò che non va e di cambiarlo. Preferisce non combattere, getta la spugna. Emily che fugge la superficialità manca di spessore, Emily che teme la solitudine rimane drammaticamente sola. Sono innamorato di Emily. So che potrei renderla davvero felice. Ma so anche che lei un giorno mi dirà che c’è qualcosa che non va, che non vale la pena rischiare di buttare la vita nel cesso per me. E se ne andrà senza voltarsi indietro. E ci lascerà soli a guardare il vuoto, e a cercare nell’aria un futuro che ci è scivolato dalle mani.

Easter Parade è un libro necessario. Ci dice che la nostra vita è segnata dalla dipendenza. Ci basta un frammento di felicità (la sfilata di Pasqua del titolo), per viverne l’astinenza, nella speranza che il miracolo di nuovo accada. Ci dice che la nostra vita è segnata da un’insanabile coacervo di gioia e dolore. E si dà una sola alternativa: sposare entrambi, o fuggire entrambi. Ci insegna infine a guardare in faccia alle cose. A riconoscere l’autentico che accade. A non farci fregare dall’ottimismo cieco, dalle felicità sbandierate, dal brillante successo. La vita è questa. Non se ne danno altre.

Richard Yates ancora una volta rifiuta la cecità, si vieta trucchi da quattro soldi, come avrebbe detto Raymond Carver. E ci consegna una sfida: penetrare oltre le apparenze. Non trovare alibi, non accontentarci, e trovare la nostra autentica strada.

Easter Parade, di Richard Yates, Minimum Fax, 2008

Titolo dell’opera originale: Easter Parade, 1976

Traduzione dall’inglese: Andreina Lombardi Bom