La congiunzione

di Daniela Thomas

C’era una volta una “e” minuscola, scritta in corsivo, così – e -, sulla pagina di un quaderno a quadretti che poi era rimasto a lungo aperto sulla scrivania.
Era una piccola vocale allegra e riderella, e su quella pagina aveva tutto lo spazio per correre e saltellare e dondolarsi qua e là, arrampicata sui fili sottili dei piccoli quadri che la sostenevano, e quando era stanca gridava il suo nome, forte forte: EH!, e un’eco tranquilla la cullava ripetendole dolcemente, finché non dormiva, quel nome che mai era stato pronunciato da un altro.
La piccola e passava le sue giornate giocando, ma un giorno un colpo di vento richiuse improvviso il quaderno, e d’un tratto il suo mondo cambiò. Senza capire come, si trovò immersa in una pagina completamente diversa da quella che aveva conosciuto fino a quel momento, ricoperta da una scrittura fitta fitta che a lei stranamente risultava incomprensibile ma familiare, una scrittura fatta di tante parole separate da piccoli spazi; e sia all’interno di quelle parole che in mezzo a quegli spazi c’erano tantissime altre e uguali a lei, in tutto tranne che nell’espressione seria e contegnosa, mentre a lei veniva ancora da ridere.
Per nulla intimidita, la piccola e si collocò disinvolta accanto alla prima gemella che vide e l’apostrofò: “Eh!”. Ma quella gemella era contenuta all’interno di una parola che rabbrividì tutta per l’orrore e poi si contrasse in se stessa fino a sputarla fuori: lì non c’era posto per un’altra “e”; che se ne andasse altrove, quella era una parola scritta correttamente – cielo -, e aveva già la sua “e”, e non aveva bisogno di nulla.
La nostra e si dispose allora accanto ad un’altra gemella che intravide in una parola vicina, ma anche quella si ribellò. Perché da “terra” non voleva certo diventare “teerra” , e trasformarsi in un errore di stampa o peggio non essere più compresa dagli altri.
La e non capiva: quelle non erano dunque sue sorelle, non erano uguali a lei come sembravano? Perché non giocavano con lei e non la riconoscevano, perché mantenevano la loro collocazione così precisa, e stavano  sull’attenti a mostrare, rigide e fiere, il posto che occupavano, e non l’accoglievano allegre né la degnavano di alcuna attenzione?
Quella notte non riuscì a dormire. Quando infine trovò un angolino bianco, in basso nella pagina, nello spazio vuoto dell’ultimo quadretto, e con voce di pianto cercò di proferire il suo solito: “Eh!”, fu aggredita da un coro di proteste, e un grosso punto, nero come una palla di cannone, rotolò fino a lei e le intimò il silenzio, aggiungendo che poteva restare lì soltanto per quella notte, e che l’indomani avrebbe dovuto cercarsi un’altra pagina, perché dopo di lui non poteva esserci nessuna insignificante “e”, e soprattutto, poi, minuscola come lei. Non le avevano dunque mai insegnato che dopo il punto ci sono solo lettere maiuscole?!
Rannicchiata nel suo piccolo spazio, la letterina si chiedeva angosciata dove sarebbe andata. Essa non conosceva nulla delle pagine precedenti, né di quelle che seguivano la sua bella pagina bianca, quella pagina cara e luminosa da cui non avrebbe mai creduto di dover fuggire, quella pagina dove si era librata, convinta che fosse infinita; e dove non poteva neppure tornare, perché ora che il quaderno si era richiuso non era più possibile stare nella pagina bianca soltanto. Se avesse voluto tornarvi, avrebbe dovuto accettare di stare contemporaneamente nell’altra, là dove tutti sembravano come lei ma non lo erano per nulla, là dove non riusciva a trovare un posto perché tutti i posti erano già occupati, là dove, anche se ne avesse trovato uno, avrebbe dovuto tenerselo per tutta la vita, senza potersi spostare mai più.
La letterina avvolta su se stessa ora piangeva, e quelle piccole braccia che un tempo aveva agitato spensierata ora le sentiva incrociate come da una camicia di forza; e quel suo occhiello bianco che tanto aveva riso e sorriso ora sembrava una macchia informe sul foglio. No: doveva riprendersi, fare appello alle ultime forze, arrancare fino a trovare una pagina nuova – non importa quale, una pagina tutta per lei dove poter ricominciare.
Fu così che dall’ultimo quadretto di quella pagina inospitale la letterina, lasciandosi alle spalle il passato splendente della sua pagina vuota e un presente cupo e troppo fitto, si trovò abbarbicata ai fili leggeri del primo quadretto di una pagina sconosciuta. Là, da quel posto d’onore, tirò un profondo respiro di sollievo e si allungò su un intero rigo proferendo tante “e” che poi si divertì a richiamare indietro dai quadretti nel suo petto, e rise di nuovo, come un tempo. Rise di quel cielo che con due “e” aveva temuto di non esser più cielo, e di quella terra che con due “e” aveva temuto di non esser più terra. Rise e le balenò il pensiero che, certo, doveva esser importante anche lei, se era bastata la sua presenza per mettere in crisi il cielo e la terra; e il suo occhiello tornò limpido e bianco, e le sue braccine tornarono ad arrotondarsi in un’allegra giravolta.
Fu allora che un colpo di vento riaprì, capriccioso, il quaderno, e proprio quella pagina su cui lei si trovava cadde sotto gli occhi di un uomo, curvo per i lunghi anni di studio e per il peso della propria solitudine. La testa fra le mani, la fronte aggrottata, stanco, l’uomo scorse quella piccola e in alto, a sinistra, in equilibrio sul bordo di un quadretto – e poi due pagine tutte bianche.
L’uomo provò, con le sue dita magre, a sfogliare ancora il quaderno: non c’era scritto più nulla, ogni foglio era candido e splendente; eppure, quella piccola e all’inizio sembrava riempire di senso quel bianco, e riconnetterlo a tutto ciò che prima era stato scritto e che ora non era più necessario leggere.
L’uomo sorrise, e con la punta di un dito seguì il disegno della piccola e che fremette tutta di piacere: non c’era che lei su quella pagina, e questo bastava ad entrambi. Bastavano quelle braccine esili per prendere in mano il cielo da una parte e farlo scivolare veloce e poi capovolgerlo vorticosamente all’interno dell’occhiello bianco, come al luna park, e poi farlo scivolare giù adagiandolo pian piano dall’altra parte, là dove c’era ad attenderlo la terra; e cielo e terra diventavano uno, e uomo e donna, e notte e giorno, e io e tu, e tutto e niente – e lei non era più vocale, e dunque non aveva più bisogno d’invocare l’eco di se stessa, la sera, per addormentarsi.
Lei ora era una congiunzione, e lo sapeva, e l’unica cosa importante era questa. Il suo compito non era quello di stare lì ferma e immobile a puntellare una o mille parole come le sue sorelle vocali, ma, come per un alchimista, quello di congiungere tutto ciò che era possibile unire e connettere – e di restare sempre se stessa, di restare sempre una e, minuscola e libera: di non attaccarsi a nessuna di quelle unioni, ma di cercarne sempre di nuove e ricche e impensate.
L’uomo, chino sul suo quaderno, sorrise e disse piano, quasi fra sé: “e“.
Bastò questo, e cominciò per lui una nuova vita.

4 pensieri su “La congiunzione

  1. il commento che mi sento di inviare oggi e il sequente.
    ieri o avuto un battibecco con una signorine sarda dove si e offesa perche gli o fatto presente che quanto parlano usano spesso mettere 2 consonanti al posto di 1 e 1 al posto di 2.
    rifiutanto la mia espressione ed ammettendo che il loro modo di esprimersi e italiano perfetto.
    chi a raggione lei o io.
    gradirei una risposta in privato per potergliela mostrare.
    sicuro di una vostra risposta ringrazzio in anticipo ed auguro un mondo di bene. ciao

    1. Rispetto alla grafia, si legge in un portale della lingua sarda:

      «Tutte le altre consonanti si usano come in italiano, però in sardo si possono raddoppiare solo la D, la L, la N, la R e la S. Infatti in sardo il suono delle consonanti è sempre intenso (una volta e mezzo quello di una consonante singola italiana), lo sappiamo tutti, e dunque non c’è bisogno di averne due, uno debole (una consonante sola) e uno intenso (due consonanti). Di consonante se ne mette una sola e si risparmia tempo, tanto lo sappiamo tutti che poi nel parlato il suono lo produciamo intenso. Però la D, la L, la N, la R e la S sono eccezioni a questa regola, perché davvero hanno anche un suono debole. Infatti un conto è dire ala altro conto è dire allu, un conto è dire manu altro conto è dire mannu, un conto è dire mara altro conto è dire marra.

      Se siete dei precisionisti, appassionati delle minime questioni di fonetica, precisiamo che per quel che riguarda la D e la S, il raddoppiamento, più che a indicare il rafforzamento della stessa consonante, serve come espediente grafico, per indicare che quella consonante prende un suono sì più intenso, ma anche un po’ diverso, che non è il semplice raddoppiamento della consonante base. Quindi, raddoppiamo la S, come espediente grafico, per distinguere la S sorda (cassu cioè «scopro») dalla S sonora (casu cioè «formaggio»), e lo stesso discorso vale per la D, raddoppiata a indicare che è cacuminale (sedda cioè «sella» invece di seda cioè «seta»).»

      [Fonte: http://www.sardu.net/dir/artìculus/grafia_sarda_autònoma.htm]

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