Discorsi che durano nel tempo

di Steven Poole

Fonte: Interblog – Internazionale (link all’articolo)

Lo scrittore britannico Steven Poole analizza le differenze tra scrivere un post, un articolo o il capitolo di un libro. Cambia il tempo a disposizione e il rapporto con i lettori.

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Abbiamo ancora bisogno dei libri? Alcuni lettori del mio blog hanno posto l’accento sul successo economico di molti blogger e credono che quella sia la strada del futuro: gli scrittori dovrebbero smettere di scrivere i libri per intero prima di cercare di venderli perché oggi esiste la pubblicazione istantanea sul web, più immediata e all’avanguardia. Ma che ne sarà così della qualità della scrittura?

Credo che i blog siano un ottimo strumento per discutere sui temi di stretta attualità. Quelli che ammiro di più spesso sanno confutare le posizioni ufficiali in modo brillante, con analisi approfondite e battute divertenti. Ma non ho dubbi: scambierei all’istante tutto quello che ho letto nella blogosfera nell’ultimo anno per una copia del magnifico libro di Denis Johnson Tree of smoke.

C’è un motivo per cui un futuro Denis Johnson non pubblicherà mai un capolavoro a puntate su internet? Secondo me sì, e dipende da una combinazione di tecnologia, struttura sociale e capacità di durare nel tempo. Visto che scrivo libri, articoli e post, vorrei raccontarvi la mia esperienza personale.

Tagliare, tagliare, tagliare
Quando scrivo un libro ho a disposizione mesi o anni. Raccolgo parole in capitoli che poi rileggo, taglio e faccio leggere ai miei amici perché li smontino senza pietà. Ci rimango malissimo a ogni critica, poi capisco che avevano ragione e correggo di nuovo. Poi mando tutto a un copy editor che passa il libro al setaccio e mi fa notare che uso la parola “così” troppo spesso. Rileggo tutto, inserisco le ultime correzioni e il libro va in stampa. A quel punto entrerà a far parte della British library e ci rimarrà per molto tempo. Se ho fatto un errore veramente imbarazzante potrò correggerlo solo nella ristampa, sempre che ce ne sia una.

Quando scrivo un articolo ho a disposizione ore o giorni. Scrivo il doppio del necessario e poi taglio fino a che non raggiungo il numero di parole stabilito. A quel punto lo mando al giornale e forse un editor mi chiamerà per farmi un paio di domande, permettendomi di chiarire una frase o di correggere un refuso. Se ho fatto un errore veramente imbarazzante sarà segnalato nelle correzioni del numero successivo, ma non tutti quelli che avranno letto l’articolo originale leggeranno la correzione.

Quando scrivo un post ho a disposizione ore o minuti. Il caffè entra in circolo e le mie dita diventano velocissime. Nessuno lo vede finché non clicco il tasto “pubblica” e comincio a controllare ossessivamente il traffico sul sito. Se ho fatto un errore veramente imbarazzante qualcuno lo sottolineerà nei commenti, con più o meno ostilità o sarcasmo. Per me il senso di un post non è spaccare il capello, ma provocare una discussione interessante.

Come avrete capito, uso la massima cura quando scrivo un libro: in quel caso non posso sbagliare e il contributo di tutte gli occhi che rileggono il testo è fondamentale. Questa è solo la mia esperienza personale e forse molti blogger dedicano grande attenzione alla revisione di un post. Le distinzioni sono fluide, e lo sono sempre state: si dice che Dostoevskij abbia scritto Il giocatore in soli ventisei giorni per pagare i debiti di gioco. Charles Dickens, invece, pubblicava i suoi libri a puntate sui giornali e poi non cambiava quasi nulla nelle edizioni rilegate.

L’idea che oggi i blog possano accantonare altre forme di scrittura è paragonabile a quella di un autore settecentesco che scriveva solo pamphlet senza pubblicare satire o romanzi. Forse il libro così come lo conosciamo sarà un fenomeno storico effimero, basato su una particolare tecnologia, durato solo mezzo millennio. Se così fosse lo rimpiangeremo. Le conversazioni tra blogger durano ore o giorni, ma le conversazioni tra i libri possono durare secoli.

Steven Poole è uno scrittore, compositore e giornalista britannico. Ha scritto Unspeak (2006) e Trigger Happy (2000). Questo articolo è uscito sul suo blog con il titolo Fugitive pieces.

Una poesia di Milo De Angelis

Nessuno ma tornano (II)

Aspettando la grandine che un intero secolo
ha promesso ai suoi figli, e poi gettandoli sul marciapiede
con uno schiaffo alla gola, quando l’asfalto
si cosparge di radiazioni e la portineria è chiusa.
Sono donne, si avvicinano fendendo l’aria,
vestite da indiane. Non c’è tempo di riflettere
in questo sibilo. E’ come se tutto accadesse
in quantità enormi. Io non so nemmeno
quali corpi dovrò fermare: ma questo tempo
non sbaglia un passo e gradino per gradino scende
dove essi hanno esclamato.

Tratto da “Terra del viso”.

Appunti di grammatica italiana. 1: Ortografia

di Loris Pellegrini

Fonte: La valigia delle Indie (link all’articolo)

(revisione 5/10/2002)

Introduzione

Questi Appunti di ortografia fanno parte, insieme con gli Appunti di morfologia, gli Appunti di metrica e altre “guide” non ancora disponibili in formato html (ad esempio: Come si consulta un vocabolario), di un gruppo di sussidi didattici elaborati, quando insegnavo, per i miei studenti del biennio di un istituto tecnico (e poi si dice che gli insegnanti non fanno nulla…). Naturalmente gli argomenti trattati sono gli stessi che si possono trovare in in una qualunque grammatica italiana di maggiore autorevolezza: io volevo solo raccogliere, in poche pagine, regole ed eccezioni della nostra lingua, esponendoli nella maniera più chiara e semplice possibile. Volevo insomma fornire allo studente (e tutti, quando cerchiamo di imparare qualcosa che non conosciamo, siamo studenti) una guida efficace alla risoluzione dei mille dubbi che ci assalgono quando tentiamo di portare sulla carta i suoni delle parole, o cerchiamo di costruire un pensiero con i termini giusti e nel giusto ordine. Spero che il lettore vorrà apprezzare almeno lo sforzo di sintesi e la chiarezza. Mi farò a questo punto un po’ di pubblicità ricordando che a questi problemini ortografici ho dedicato un simpatico libriccino che ti consiglio, lettore, di cercare: si intitola Il professore e la signorina, ed è stato pubblicato da Guaraldi nel 1995 (ne parlo qui ). Ti divertirà!
Buona lettura… Loris Pellegrini

L’ALFABETO

L’alfabeto italiano è formato da 21 lettere: 5 vocali (a e i o u) e 16 consonanti (b c d f g h l m n p q r s t v z). Ma i suoni di cui la nostra lingua si serve per comunicare sono più dei segni, sono 29. Così alcune lettere possono essere pronunciate in due modi diversi (e o c g s z), mentre, al contrario, alcuni suoni hanno bisogno di due lettere per poter essere registrati: gl (taglio), gn (pigna), sc (ascia).
Ci sono poi 5 lettere, di derivazione classica o straniera, che pur non appartenendo propriamente al nostro alfabeto sono di uso comune: j (i lunga: così si chiama in italiano, e non “gei”, all’inglese), k (cappa), w (vu doppia), x (ics), y (ipsilon, o: i greca).

Vediamo più da vicino le caratteristiche di alcune lettere e dei gruppi consonantici.

C e G
Le lettere c e g hanno suono gutturale, cioè duro, davanti ad a o u, come in casa, goffo, cupola; hanno invece suono palatale, cioè dolce, davanti a e ed i, come in cera e giro (per avere suono gutturale davanti a queste ultime vocali bisogna infatti, come si sa, far seguire c e g dalla lettera h: chiesa, ghiro). Scriveremo perciò, ad esempio: rosticceria, NON: rosticcieria, perché la c davanti alla e è già dolce. Ma ci sono alcune parole in cui – per motivi che sarebbe troppo lungo spiegare qui – fra la c e la e si interpone una i, anche se inutile: cielo, infatti, si pronuncia come se fosse scritto celo. Le più comuni sono: cielo, cieco(ma: accecare), sufficienza (e anche sufficiente, efficiente, coefficiente, ecc.), specie, superficie. E ce ne sono altre: braciere, società, ecc. Nell’incertezza meglio consultare il vocabolario!

D
C’è una d eufonica (facilita cioè la pronuncia) che si aggiunge alla preposizione a e alle congiunzioni e e o quando queste si trovano davanti a una parola che inizia con la stessa vocale: ad amare, ed egli, ecc. Ma se le vocali sono diverse generalmente si tralascia: e allora, a entrare, o altro, ecc.

E e O
Per quanto possa sembrare strano, esistono in realtà due e e due o: la e di nero, infatti, non è la stessa di bello, così come la o di cosa non è la stessa di ora. È possibile distinguere i due suoni con l’aiuto di un accento grave (inclinato a sinistra) che indica la pronuncia “aperta”, cioè larga: bèllo, còsa; e di un accento acuto (inclinato a destra) che indica la pronuncia “chiusa”, cioè stretta: néro, óra. Purtroppo questo tipo di accento – che, come vedremo, si dice fonico perché ci indica come va pronunciata la lettera – non è obbligatorio. Scriviamo dunque bello e nero sapendo che diremo bèllo e néro; scriviamo cosa e ora sapendo che diremo còsa e óra.

H
La lettera h è un simbolo puramente grafico, cioè una lettera “muta” che non si pronuncia, ma che svolge ugualmente alcune utili funzioni:

  • rende gutturali la c e la g davanti alle vocali i ed e: chiesa, ghiro;
  • aiuta a distinguere il verbo avere in alcuni casi di omofonìa, cioè di identica pronuncia:
    ho (verbo) – o (congiunzione)
    hai (verbo) – ai (preposizione articolata)
    ha (verbo) – a (preposizione semplice)
    hanno (verbo) – anno (sostantivo)
  • si usa nelle esclamazioni: ahi!, ehi, ah!, oh, ecc., sia per dare alla pronuncia un tono particolare, sia per evitare, in alcuni casi, la confusione con: ai (preposizione articolata), a (preposizione semplice), o (congiunzione), ecc. Attenzione: nelle esclamazioni la h segue sempre la prima vocale: ah, oh (NON: ha, ho che sono voci del verbo avere, né: hey che è inglese), e può essere seguita da un’altra vocale: ehi, ahi, ohi, ecc. A titolo di curiosità ricorderemo inoltre che la h sopravvive in alcuni nomi propri o geografici di origine latina (Rho, Thiene, ecc.).

J
La j (i lunga), che ormai si usa solo nelle parole straniere, come jazz o jet, era usata una volta per indicare un certo tipo di i detta semiconsonantica, vale a dire una i quasi assorbita dalla vocale seguente, e che si aveva quando la i ad inizio di parola era seguita da una vocale (jeri, jattura) o quando era iniziale di sillaba all’interno della parola (no-ja, ceso-je). E fino ai primi del secolo scorso, inoltre, non era raro vederla usata al posto della doppia i nel plurale dei nomi terminanti in -io con i àtona (cioè non accentata): studio => studj, invece di studii (ma noi oggi scriviamo semplicemente studi). Ormai è sempre sostituita dalla i, tranne in alcuni nomi, propri o topografici: Jacopo, Pejo, ecc.

N
La n si muta in m davanti alle lettera b e p. La cosa vale la pena di essere ricordata perché in alcune parole la pronuncia ha il sopravvento sulla logica. Esempio: invincibile è il contrario di vincibile, ottenuto con il prefisso in (= non). Allo stesso modo si formano in-battibile e in-possibile, ma, per motivi eufonici, cioè di miglior suono, scriveremo imbattibile e impossibile.

Q
La lettera q non ha un suono proprio e si pronuncia sempre unita alla u formando il nesso qu che si lega alla vocale seguente: qua, que, qui, quo:ac-qua, que-sto, a-qui-la, quo-ta. Attenzione a non fare confusione con: -cua, -cue, -cui, -cuo (proficua, innocue, taccuino, cuoco). In alcuni casi la differenza è sensibile: mentre in aquila la u, inglobata alla q, quasi non si pronuncia e si scivola velocemente sulla i, in cui la u ha tutto il suo valore vocalico e si pronuncia distintamente: Il cui libro. Purtroppo non sempre il suono può aiutarci: quota e cuore si pronunciano allo stesso modo pur scrivendosi diversamente. Dunque, dizionario alla mano. Quanto al problema del raddoppio, si risolve con cq: acqua, acquistare (e in questo caso la divisione sillabica spezza le due consonanti: acqua, acquistare); fa eccezione soqquadro, con due q perché la parola è formata col prefisso latino sub che raddoppia la consonante iniziale (così come in: sommossa o sottrarre).
Un esercizio. Proviamo a scrivere taccuino in 4 diverse forme e studiamone la pronuncia: 1) tacuino; 2) taquino; 3) tacquino; 4) taccuino. Nel primo caso si pronuncerebbe come acuire; nel secondo come aquila; nel terzo come acquistare; nel quarto come… taccuino, appunto, cioè con la doppia c e la u ben distinte, ed è ovviamente la forma corretta.

S e Z
Come la e e la o anche la s e la z hanno un solo segno per due suoni diversi: possono essere infatti sorde, emesse cioè con la sola emissione del fiato (solo, asso; zio, pozzo), o sonore, emesse cioè mediante vibrazione delle corde vocali (sbagliare; asilo; zanzara, azzerare). Si può capire bene la differenza mediante un piccolo esperimento: appoggiate due dita sulla gola e pronunciate le parole degli esempi. Con la s e la z di solo e zio non sentirete nessuna vibrazione, con quelle di asilo e zanzara sì. A differenza della e e della o, la s e la z non hanno accenti per distinguere i due suoni. Così se vogliamo pronunciarle bene e non conosciamo le regole della dizione italiana è necessario ricorrere al dizionario, dove le due pronunce sono indicate con l’aiuto di qualche segno. Non dimentichiamo, infine, che la z singola (frazione) e quella doppia (pozzo) si pronunciano allo stesso modo e perciò dobbiamo fare attenzione nello scriverle (a proposito: tutte le parole in -zione vogliono una sola z: eccezione, stazione, sottrazione, ecc.)

GL
Il nesso gl ha suono dolce solo davanti alla vocale i (aglio, figlio) con l’eccezione di alcune parole, come glicerina o negligenza. Perciò, ad esempio: maglie, NON: magle. Attenzione a non confonderlo con la l: miliardo, NON: migliardo; maglione, NON: malione.

GN
Il nesso gnnon è mai seguito da i àtona, cioè non accentata. Perciò: castagna, NON: castagnia; lavagna, NON: lavagnia. In queste parole, infatti, l’accento tonico cade su sillabe diverse da quelle del nesso gn: ca-stà-gna, la-và-gna. Ma scriveremo compagnia, perché qui l’accento tonico cade sulla i: com-pa-gnì-a. Fanno eccezione i verbi terminanti in -gnare e -gnere alla prima persona plurale dell’indicativo presente e alla prima e alla seconda persona plurale del congiuntivo presente, perché qui la i appartiene alla desinenza; quindi: noi sogniamo, che noi sogniamo, che voi sogniate, così come scriviamo: noi am-iamo, che noi am-iamo, che voi am-iate.

SC
Tra il gruppo consonantico sc e la vocale enon si inserisce mai la vocale i (quindi: scelta, scena, ecc.) tranne in: scienza e derivati (scienziato, ecc.), coscienza e derivati (incosciente, ecc.) e usciere. Perciò: conoscenza (che non deriva da scienza ma da conoscere), adolescenza, reminiscenza, ecc. Dunque non vogliono la i neanche i plurali: fasce, lisce, ecc.

2. GLI ACCENTI

L’accento è un segno che si sovrappone a una vocale e serve per la corretta pronuncia della lettera e della parola. Esistono, nella lingua italiana, tre tipi di accenti: FONICO, TONICO e CIRCONFLESSO.

ACCENTO FONICO

È l’accento che ci dice come dobbiamo pronunciare le vocali e ed o. Inclinato a sinistra indica la pronuncia aperta (o larga): è ò (bèllo, pòrta); a destra la pronuncia chiusa (o stretta): é ó (néro, óra). Chi vuol parlare, infatti, un italiano corretto, deve saper distinguere la pronuncia:

Ho mangiato una pèsca, ma: Sono andato a pésca;
C’erano vènti fortissimi, ma: Le matite sono vénti;
Ho preso le bòtte, ma: Ho comprato una bótte di vino;
Quell’avvocato è un principe del fòro, ma: C’è un fóro nella pentola.

All’interno della parola di solito questo accento non si segna, perché il contesto della frase è sempre sufficiente a evitare equivoci con altre parole che si scrivono allo stesso modo ma hanno altri significati (téma = timore; tèma = componimento; ecc.). Ma se la e e la o sono accentate in fine di parola, e dunque l’accento è necessario (altrimenti giacché si leggerebbe giacche o però si leggerebbe pero) è bene metterlo orientato per la giusta pronuncia.
In questo caso ricordiamo che:

  • sulla e è chiuso nelle parole terminanti in -ché (poiché, perché, sicché, ecc.), in né e sé, e in alcuni passati remoti (temé, poté, ecc.); ma è aperto in quattro parole di uso comune: è, cioè, tè e caffè (oltre a qualche parola di origine francese, come gilè);
  • sulla a e sulla o è sempre aperto (città, sarà, farò, dirò);
  • sulla i e sulla u sebbene sia più corretta la forma chiusa (í, ú) si usa più spesso quella aperta (ì, ù), anche perché questo è l’accento che c’è sulle tastiere delle macchine da scrivere e dei computer. In ogni caso la pronuncia non cambia, quindi: lì o lí, più o piú; ma una volta fatta una scelta è bene comportarsi coerentemente.

ACCENTO TONICO

Indica la sillaba su cui cade l’accento nella pronuncia: pàl-li-do, do--re, per-ché, ecc. e, a seconda di dove cade l’accento, le parole vengono dette: piane, sdrucciole, tronche.

Sono piane le parole in cui l’accento cade sulla penultima sillaba: -sa, fi--stra, ta-vo--no, ecc. Si tratta di un accento che in realtà non si scrive perché, essendo piane la maggior parte delle parole della nostra lingua, noi pronunciamo spontaneamente in maniera “piana” (e gli stranieri infatti, che lo sanno, dicono ad esempio ta--lo invece di -vo-lo).

Sono sdrucciole le parole in cui l’accento della pronuncia cade sulla terzultima sillaba: ò-stri-ca, te--fo-no, pàr-la-mi; ecc. Anche questo accento di solito non si scrive perché impariamo la corretta pronuncia con l’esercizio. Tuttavia l’esistenza di parole omògrafe (parole cioè che si scrivono allo stesso modo ma hanno diversi significati) fa sì che talvolta l’accento possa essere almeno utile, se non proprio necessario. Per non confondere, ad esempio, càpitano con capitano, o fòrmica con formica. Ma il contesto della frase quasi sempre è sufficiente alla distinzione. (Esistono anche parole bisdrucciole o trisdrucciole ma sono così rare che non ne parleremo.)

Sono tronche, infine, le parole in cui l’accento cade sull’ultima sillaba: an-dàr, vol-ér, sof-frìr, ecc. In questo caso, se l’ultima sillaba termina con una vocale, l’accento è obbligatorio (però, così, poiché, andrà, ecc.) perché se non scrivessimo l’accento tenderemmo a leggere le parole in maniere “piana” (pero, cosi, ecc.).
Da tutto ciò deriva una conclusione: poiché l’accento indica su quale sillaba deve “battere” la pronuncia, le parole di una sola sillaba non ne hanno bisogno: non è possibile, infatti, far cadere l’accento su nessun’altra sillaba. Ecco dunque una regola semplice e generale: i monosillabi non si accentano mai. Ma le regole, si sa, hanno sempre delle eccezioni. Ci sono, purtroppo, alcuni monosillabi in cui, anche se inutile, l’accento va segnato.

  • Vogliono l’accento i monosillabi che terminando in dittongo, cioè con due vocali accoppiate, potrebbero dare origine a incertezze di pronuncia. Quindi: ciò, più, già, ecc., altrimenti (data la nostra preferenza a pronunciare in maniera “piana” piuttosto che “tronca”) leggeremmo: cìo, pìu, gìa, ecc., così come leggiamo mìo, zìa. Attenzione però a qui e qua: in questo caso il monosillabo non ha due vocali perché – ricordate? – la lettera q si lega sempre con la u a formare un unico suono consonantico: (qu)i, (qu)a. Quindi: qui e qua (secondo la regola generale che i monosillabi non si accentano) e NON: quì, quà;
  • Vogliono l’accento i monosillabi che avendo dei “fratelli gemelli”, cioè monosillabi identici ma di diverso significato, possono distinguersi solo con l’accento. E sono:
    • (terza persona dell’indicativo presente del verbo dare: Mario una mano a suo fratello) per distinguerlo da da (preposizione: Da chi sei stato ieri?).
    • è (terza persona dell’indicativo presente del verbo essere: Questo quadro è bello) per distinguerlo da e (congiunzione: Pane e salame).
    • (avverbio di luogo: Maria è ) per distinguerlo da la (articolo: La cartella è sul tavolo; o pronome: La vuoi un po’ di cioccolata?).
    • (avverbio di luogo: Il libro è ) per distinguerlo da li (pronome: Li ho visti al cinema).
    • (congiunzione negativa: questo, quello) per distinguerlo da ne (particella atona con funzione avverbiale: Sono appena arrivato e me ne andrò subito; o pronominale: Me ne ha parlato Mario; o pleonastica: Che ne dici di questo libro?).
    • (pronome: L’ha fatto da sé) per distinguerlo da se (particella pronominale: Se l’è presa troppo; o congiunzione semplice: Se potessi andrei al mare). [Nota: Sarebbe ora di smetterla con l’assurda diceria che “se stesso” non va accentato perché qui “se” è chiaramente pronome e non si può confondere: una volta accettato il principio della possibilità dell’equivoco si dovrebbe agire di conseguenza evitando di creare l’eccezione a un’eccezione! Del resto scriviamo: a sé stante e neanche qui c’è la possibilità dell’equivoco. Ma le abitudini sono dure a morire…]
    • (avverbio di affermazione: , sono stato io!) per distinguerlo da si (particella pronominale: Si crede il più bravo; Si dice che…).
    • (sostantivo: forma antiquata per “giorno”: Tre volte al ) per distinguerlo da di (preposizione: Di chi è quel libro?).
    • (sostantivo: la bevanda: Vuoi un po’ di ? [NON: thè!]) per distinguerlo da te (pronome personale: Abbiamo parlato di te, che oltretutto va anche pronunciato con la e stretta, cioè come se fosse scritto té).
    • ché (forma abbreviata di perché: Me ne vado, ché così non si può andare avanti) per distinguerlo da che (pronome: Il libro che mi hai dato).

    Va da sé che in questi casi, visto che l’accento è necessario, tanto vale metterlo anche “orientato”, cioè corretto fonicamente. Scriveremo quindi: è, tè (NON: é, té), con l’accento aperto; e: né, sé, ché (NON: nè, sè, chè), con l’accento chiuso.

    Tutti gli altri monosillabi non vogliono l’accento. Quindi:

      Carlo sta studiando, NON: Carlo stà studiando;
      Dieci anni fa, NON: Dieci anni fà;
      Io lo so, NON: Io lo sò;
      ecc.

ACCENTO CIRCONFLESSO

Più che un vero e proprio accento è un segno (^) che, una volta, indicava la contrazione di due i in fine di parola: varî = varii ; vizî = vizii, ecc. Ma oggi scriviamo studi e, dunque, possiamo ben scrivere vari, vizi, ecc. Tutt’al più, in certi casi equivoci, si può ricorrere all’accento tonico: princìpi (plurale di principio) per distinguerlo da principi (plurale di principe).

3. L’APOSTROFO

L’apostrofo indica, in generale, la caduta della vocale o della sillaba iniziale o finale di una parola; indica insomma che “manca qualcosa”. In particolare serve ad indicare: l’ELISIONE, l’AFERESI, l’APOCOPE. Non spaventatevi dei paroloni: è tutto più semplice di quanto non sembri.

ELISIONE (e TRONCAMENTO)

L’elisione è la soppressione della vocale finale di una parola quando questa precede un’altra parola che comincia con una vocale: per facilitare la pronuncia si mette l’apostrofo al posto della vocale soppressa: lo elmo – l’elmo; bella anima – bell’anima; degli interessi – degl’interessi; una arma – un’arma. Possiamo dire che oggi si tende a elidere meno di una volta, e che l’elisione è necessaria solo con l’articolo lo e le preposizione da esso derivate (dello, allo, nello, ecc.): l’albero, sull’albero, ecc. (ma si scriverà: lo iodio, lo iato, ecc.). Ci sono alcuni casi, poi, in cui l’elisione è addirittura da evitare, e cioè:

  • quando l’articolo precede una parola invariabile al plurale: l’analisi che cosa vuol dire: la analisi o le analisi?
  • quando l’articolo plurale gli precede una vocale che è diversa dalla i: gl’intrighi, gl’ingegni; ma NON: gl’altri, gl’ultimi, gl’elefanti.

Anche il troncamento è la soppressione dell’ultima vocale o dell’ultima sillaba àtona di una parola (buon, bel, signor, ecc.), ma indipendentemente dal fatto che la parola seguente cominci con una vocale o no, e dunque non vuole l’apostrofo: buon padre, bel cane, signor mio.
Il problema ora è: come si fa a distinguere una parola elisa (che vuole l’apostrofo) da una tronca (che non lo vuole)? Una volta tanto siamo fortunati: c’è una regolina facile da ricordare, ed è questa: se una parola privata della vocale o della sillaba finale può stare davanti ad un’altra parola che inizia con consonante, è una parola tronca e non vuole l’apostrofo, neanche davanti a vocale. Quindi: tal uomo (perché posso dire: la tal donna, la tal parte, ecc.), buon uomo (perché posso dire: buon giorno, buon pranzo, ecc.), e anche: qual è (perché posso dire: il qual nome, qual buon vento, ecc.). Se invece non può starci è una parola elisa, che non ha senso compiuto e perciò vuole l’apostrofo al posto della vocale mancante. Quindi: quand’anche (perché non posso dire: quand questo); buon’amica (perché non posso dire: buon donna); pover’uomo (perché non posso dire: pover cane). Facile, no?

AFERESI

Anche l’afèresi è la caduta di una vocale o di una sillaba, ma iniziale, e anche qui la parte caduta si sostituisce con l’apostrofo. Si incontra spesso nell’italiano antico: lo ‘ngegno (=l’ingegno), ma può capitare di usarla anche oggi: ‘Sta (=questa) minestra è proprio buona!. Attenzione: l’apostrofo va legato all’inizio della parola: Tra ‘l sì e ‘l no, NON: Tra’ l sì e’ l no.

APOCOPE

L’apòcope è la caduta della vocale o sillaba finale – al cui posto si mette l’apostrofo – ma indipendentemente dalla parola che segue: po’ = poco, be’ = bene, mo’ = modo, ecc.; e nell’italiano antico anche: de’ = dei, a’ = ai, ecc.
In particolare è bene ricordare l’apocope di alcuni imperativi che senza apostrofo possono essere confusi con altre voci verbali o altre parti del discorso:

  • va’ = vai (imperativo di andare): Va’ a prendere quei libri! Ma: Gianni va a casa (perché qui va è la 3a pers. sing. del pres. indicativo).
  • fa’ = fai (imperativo di fare): Fa’ presto! Ma: Luigi fa i compiti (perché qui fa è la 3a pers. sing. del pres. indicativo)
  • sta’ = stai (imperativo di stare): Sta’ fermo!Ma: La mamma sta cucendo (perché qui sta è la 3a pers. sing. del pres. indicativo).
  • da’ = dai (imperativo di dare): Da’ quel libro a Mario! Ma: Gianni una mano a Mario (perché qui è la 3a pers. sing. dell’indic. pres.); e: Da qui al paese la strada è lunga (perché qui da è preposizione).
  • di’ = di’ tu (imperativo di dire): Di’ un po’: che ti è successo? Ma: Tre compresse al (perché qui è un sostantivo e sta per: giorno); e: Di chi è questo? (perché qui di è preposizione).
  • ve’ = vedi (imperativo di vedere): Ve’ che roba…
  • to’ = togli (imperativo di togliere, nel suo antico significato di prendere): To’ (=prendi), portalo a Maria!

È bene ricordare infine che l’apostrofo serve anche nelle abbreviature dei millesimi (La guerra del ’15-’18) e si mette prima delle ultime due cifre ad indicare che sono state soppresse le prime due: Anni ’60, NON: Anni 60′

.

Sarà utile a questo punto una TAVOLA RIASSUNTIVA di particelle e nessi che possono confondersi:

  • ce – c’è (C’è già molto zucchero, non ce ne mettere più)
  • da – dà – da’ (Se Mario ti dà la penna, tu da’ a Paolo la macchina da scrivere)
  • di – dì – di’ (Di’ un po’, hai capito? Di queste pillole deve prenderne tre al dì)
  • fa – fa’ (Mario fa i suoi compiti, tu fa’ presto a finire i tuoi!)
  • la – là – l’ha (La giacca l’ha messa là)
  • lo – l’ho (Lo zainetto l’ho preso io)
  • ma – mah – m’ha (Mah, non m’ha detto niente, ma io ho capito lo stesso…)
  • ne – né – n’è (Anche se ce n’è ancora, non ne voglio più né di questo né di quello)
  • se – sé – s’è (Se s’è fatto male da sé peggio per lui!)
  • sta – sta’ (Guarda Mario come sta fermo: sta’ buono anche tu!)
  • to’ – t’ho (To’, chi si vede… T’ho riconosciuto subito, sai?)
  • va – va’ (Mario va a casa presto, va’ con lui). Ricorda: va indica sempre la terza persona (egli va), va’ la seconda (vai tu).

E prima di chiudere il paragrafo sull’apostrofo affrontiamo una dibattutissima questione: si può usare l’apostrofo in fin di riga, scrivere cioè: l’ (a capo) albero? Alcuni studiosi dicono di sì, altri di no, e tutti portano buone ragioni a conforto della loro tesi. Io sono stato sedotto dalle argomentazioni di Aldo Gabrielli e ho scelto di stare dalla parte di coloro che ritengono corretto l’uso dell’apostrofo in fin di riga. Quindi, oltre alla forma: bel- l’albero

(che va sempre bene), si può usare anche:

bell’ albero

Non si deve mai scrivere, invece:

bello albero

perché questa forma non rispetta la necessaria elisione ed è quindi un errore.

4. LE SILLABE

Saper dividere una parola in sillabe è indispensabile per “andare a capo” correttamente. E a capo si può andare “spezzando”: a) una vocale e una consonante; b) due vocali; c) due consonanti.

  1. Le consonanti semplici fanno sillaba con la vocale che segue: co-sa, ta-vo-lo, ecc.
  2. Quando le vocali i e u atone (cioè, come abbiamo già detto, senza accento) si incontrano con un’altra vocale (fiorino), eventualmente accentata (cre), o fra di loro – e in questo caso una delle due può avere l’accento (pma) – abbiamo un dittongo, che può considerarsi come un’unica vocale composta, e non si spezza:fia-to, piog-gia, noi, Eu-ro-pa, fuo-co, fiu-me (quando le vocali inseparabili sono tre si parla di trittongo: buoi, miei, pagliai). Altrimenti le vocali formano uno iato, si pronunciano separatamente e possono essere spezzate: be-a-to, ma-e-stro, mi-o, bu-e, pa-u-ra. Ma attenzione: non sono dittonghi quelli derivanti da parole con i o u toniche, su cui cioè cade l’accento della pronuncia (ad esempio spi-a-re: i-a non è un dittongo perché viene da spì-a che ha la i tonica; o pa-u-ro-so che viene da pa-ù-ra); né sono dittonghi quelli presenti in parole in cui la i è preceduta da r o da un gruppo consonantico con r : ori-ente, settentri-one, patri-a, ri-one.
  3. Le consonanti doppie si dividono a metà: una resta con la sillaba precedente, l’altra va con la seguente: bozzetto, azzurro. I gruppi di due o tre consonanti diverse fra loro si comportano nel modo seguente:
  4. Se il gruppo può costituire inizio di parola (se cioè esiste nella lingua italiana qualche parola che inizi con quel gruppo consonantico) il gruppo si lega alla vocale che segue: re-spi-ro, perché esiste spronare; la-drun-co-lo, perché esiste: drenare; a-tro-fi-a, perché esiste: trofeo.
  5. Se il gruppo delle consonanti non può costituire inizio di parola (se cioè non esiste nessuna parola italiana che inizi con quel gruppo) allora la prima o le prime consonanti si legano alla sillaba precedente in modo che le rimanenti possano costituire inizio di parola e dunque, secondo la regola precedente, andare a capo legate alla vocale che le segue. Ad esempio: in tecnico il gruppo consonantico cn non può costituire inizio di parola (non c’è infatti nessuna parola italiana che cominci con cn), perciò andremo a capo così: tec-nico. E così: subdolo – sub-dolo, amnesia – am-nesia, cripta – crip-ta, abnorme – ab-norme, tungsteno – tung-steno.

5. LA PUNTEGGIATURA

Non esistono regole ferree per la punteggiatura, che risponde più ad esigenze stilistiche che grammaticali, ma è bene ricordare che i segni d’interpunzione hanno anche un valore “logico” e vanno usati per comunicare il meglio possibile le sfumature del nostro pensiero.

Virgola

Indica una breve pausa e si usa spesso per separare gli “incisi”, cioè le parti accessorie di un discorso principale: Domani, se sarà bel tempo, andrò al mare; oppure: Marco, ragazzo diligente, studia con profitto. È necessaria inoltre nelle elencazioni: C’erano Mario, Carlo, Luigi, Andrea; o quando si vogliono scolpire bene alcune proposizioni di un periodo: Parlava, parlava, si agitava, non concludeva nulla. È opportuna dopo una esortazione: “Andiamo, ragazzi, fate un po’ di silenzio!”. In genere, comunque, oggi si tende a fare un uso parco e razionale delle virgole; vale a dire: meglio metterne poche e bene.
Una nota: a scuola continua a circolare la diceria che “non si mette la virgola prima della e“. È una sciocchezza. Apriamo a caso I promessi Sposi: «Una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole». E non è che un esempio fra tanti. Ma se la e ha valore congiuntivo allora, ovviamente, la virgola diventa inutile:Vino, pane e salame.

Punto

È il segno che indica la fine di un periodo compiuto, lungo o breve che sia. Dopo il punto è necessaria la maiuscola.

Punto e virgola

Ormai caduto in disuso risulta invece utile quando, in un periodo già ricco di virgole, si voglia continuare il discorso senza interromperlo con un punto. Un esempio preso dal solito Manzoni: “Il lembo estremo, tagliato dalle foci de’ torrenti, è quasi tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna”.

Due punti

Si usano:

  • prima di riferire risposte e parole altrui: Luigi mi disse: «Vengo anch’io.»;
  • prima di cominciare un elenco di cose o concetti: C’erano: Luigi, Mario e Andrea;
  • quando il concetto che segue è una spiegazione o un rafforzamento del precedente: Te l’ho già detto: non c’era nessuno.

Punto interrogativo e Punto esclamativo

Sono segni di intonazione e servono il primo a rendere la frase interrogativa (“Ha fatto proprio così.” è un’affermazione, “Ha fatto proprio così?” è una domanda), il secondo a sottolineare la sorpresa (Com’è bello!), il dolore (Ahi, che male!), la minaccia (Mario, ubbidisci!), ecc. Non sempre richiedono dopo di sé la maiuscola. Dunque si scriverà: Come? Non ci sei andato?; ma: Questo ragazzo è, come dire?, svogliato, distratto…, oppure: Ragazzi, via!, non fate chiasso… Una cosa importante: sia il punto interrogativo che quello esclamativo indicano una certa “intonazione” e non è che mettendone più di uno l’intonazione cambi; quindi è inutile il raddoppio: ?? o !!. Si possono invece accoppiare i due segni per sottolineare una sfumatura di incredulità: Come?! Non lo hai ancora fatto?

Puntini di sospensione

Sono un segno di interpunzione rappresentato da tre punti (non di più) con cui si sospende a mezzo una frase per riprenderla subito dopo o lasciarla incompleta. Non richiedono dopo di sé la maiuscola, tranne quando chiudono definitivamente il periodo: “Ne parlerò alla madre badessa, e una mia parola… e per una premura al padre guardiano… Insomma do la cosa per fatta” (Manzoni). Meglio non usarli in senso ironico: Era proprio… bello! I puntini possono anche indicare una omissione in una citazione, ma in questo caso è meglio metterli tra parentesi: “Quel ramo del lago di Como (…) tutto a seni e a golfi”.

Barra

È utile quando si vuole citare una poesia, per separare i versi: “Sempre caro mi fu quest’ermo colle / e questa siepe…”.

Parentesi

Servono, fra gli altri usi, a circoscrivere un inciso, cioè una o più proposizioni inserite in un periodo più complesso, ma tali che si potrebbero omettere senza nuocere né al senso né alla costruzione grammaticale del periodo stesso: “Anche i bimbi (giacché su questa materia comincian presto a ragionare) non videro malvolentieri che si sottraesse alla polenta un concorrente, e il più formidabile.” (Manzoni).

Lineetta e Trattino

Nonostante siano graficamente molto simili (la lineetta è un po’ più lunga del trattino) hanno un valore ortografico molto diverso.

  • La lineetta (-) può valere sia come segno ortografico che come segno d’interpunzione.
    Come segno ortografico serve a delimitare un discorso diretto. Se il discorso diretto è un dialogo si mette la lineetta solo in apertura:
    – L’hai visto il film?
    – No.
    – Come mai?
    – Sono arrivato tardi.
    Se invece il discorso diretto è inserito in un periodo è necessario mettere la lineetta anche in chiusura: Mario gridò: C’è nessuno? ma non udì nessuna risposta.
    Ma le lineette si possono anche usare in un discorso diretto «virgolettato» per isolare l’intervento del narratore: «Se è bel tempo osservò Mario potremmo andare al mare».
    Come segno d’interpunzione la lineetta si usa invece per racchiudere un inciso laddove la virgola non darebbe altrettanto rilievo, e le parentesi sarebbero eccessive: La regola ed è bene ricordarlo dice di fare così.
  • Il trattino invece (-) serve ad indicare la spezzatura di una parola in fin di riga: ombrello
    o la congiunzione di certe parole composte: afroamericano.

Virgolette

Vanno sempre usate in coppia (una volta aperte, cioè, devono sempre essere chiuse); e possono essere apicali “…”, o angolari «…». Quelle apicali si usano per circoscrivere una citazione: “Verrà un giorno…”, come diceva padre Cristoforo; o una parola dal significato particolare: Il computer è in fase di “input”. Quelle angolari sono particolarmente adatte ad indicare un discorso diretto, perché essendo direzionate («…») è facile riconoscere quando aprono o chiudono il discorso. Così:
«Sei andato alla festa?»
«No.»
«Perché?»
«Dovevo studiare.»
Ma anche: Mario chiese: «Che si fa oggi?» Michele sbuffò: «Non lo so…» (notate che qui dopo le virgolette di chiusura del primo discorso non ci va nessun punto, poiché il punto, interrogativo, è già dentro). I due tipi diversi di virgolette possono anche distinguere il parlato dai pensieri: Gianni mi ha chiesto: «Perché non vieni anche tu?», ma io ho pensato: “Mi devo fidare?”.
Attenti, infine, nell’andare a capo in fin di riga: i due punti si legano sempre alla parola precedente, le virgolette a quella seguente:
… Maria mi guardò e mi chiese:
«L’hai preso tu?»