Alcuni piccoli consigli agli scrittori

di Manuel Semprini

So benissimo che tra le persone apparentemente interessate a scrivere, ben poche sono interessate a scriver bene. A loro interessa pubblicare qualcosa, e se possibile fare un “colpaccio”. Essere uno scrittore, non scrivere.
(Flannery O’Connor, Nel territorio del diavolo)

Già nel 1851 Schopenhauer avvertiva che «vi sono due tipi di scrittori: coloro che scrivono per amore della cosa, e coloro che scrivono per scrivere. I primi hanno avuto idee oppure esperienze che sembrano loro degne di essere comunicate; i secondi hanno bisogno di denaro e perciò scrivono per denaro» [Arthur Schopenhauer, Sul mestiere dello scrittore e sullo stile, Adelphi, Milano, 1993, p. 17].
Presumendo che siate spinti da buone intenzioni e che quindi desideriate di essere annoverati fra gli “scrittori per vocazione” e non fra gli “scrittori di professione”, immagino che possano essere utili alcuni brevi consigli sulla scrittura, al fine di evitare certe trappole stilistiche che spesso ostacolano o, addirittura, interrompono precocemente la carriera di un esordiente.

Innanzitutto, voglio porre alla vostra attenzione una specie di percorso evolutivo che sembra seguire chi si appresta a scrivere. È un percorso che porta a maturare una certa padronanza dello stile e che, come in tutti i tipi di sviluppo, può avere sia improvvise accelerazioni che ritardi duraturi. Ciononostante, è un tragitto da percorrere: tappe obbligate per arrivare a scrivere con equilibrio, senza eccessi o manierismi.
C’è una prima fase – oserei dire – egocentrica, in cui l’autore si sofferma sul proprio modo di vedere e di sentire il mondo, utilizzando una forma quasi diaristica per esprimersi. In questa fase l’Io prende il sopravvento e la narrazione viene “fagocitata” dalla prima persona singolare. Il discorso più o meno sottinteso è del tipo: “io sono diverso dagli altri, che non mi capiscono e non accettano la mia diversità”. La solitudine, il disprezzo, il soliloquio permeano quasi del tutto il racconto: pochi personaggi, rari dialoghi e situazioni contingenti fanno da contorno alla descrizione dettagliata e doviziosa dei pensieri e dei sentimenti del protagonista-autore.
A questa fase, e talvolta strettamente legata ad essa, ne subentra una più ambiziosa, in cui la ricerca spasmodica di nuove forme di espressione diviene una sorta di demone che possiede chi scrive. Si sperimentano tipi di carattere differenti per comunicare stati d’animo o interlocutori diversi: così il carattere Times delinea un personaggio austero e monolitico, mentre il Comic Sans afferma un lato infantile di una personalità. La punteggiatura viene rimescolata costantemente perdendo di significato: i puntini sospensivi si moltiplicano come l’attesa di qualcosa di fenomenale; i punti e virgola scompaiono; le parentesi aggrediscono le frasi frazionandole in mille rivoli discorsivi (effetto Matrioska). Solo per fare alcuni esempi e per tralasciare tutte le “innovazioni” apportate alla struttura stessa delle frasi.
Superata anche questa fase sperimentale, si giunge a quella che potrei definire la fase cinematografica. Le descrizioni si assottigliano e i dialoghi prendono sempre più spazio nell’architettura dello scritto, che, a questo punto, non si distingue più tanto bene da un pezzo teatrale o da una sceneggiatura. Gli stati d’animo dei personaggi, l’ambiente in cui si svolge l’azione, le riflessioni del narratore diventano semplici note di colore tratteggiate con brevità quasi asettica. Spesso non si capisce neppure chi è che parla e a chi parla.
In un’intervista, lo scrittore Kazuo Ishiguro mette in guardia da «tutte quelle ingenuità degli scrittori agli esordi. La fase autobiografica in cui si indugia sui propri drammi esistenziali… Quella pretenziosa in cui ci si sente James Joyce… Le avevo passate tutte fino a trovare il mio stile» [Antonella Barina, Volevo essere Bob Dylan poi James Joyce e sono diventato Ishiguro, Venerdì di Repubblica, n. 933, 03/02/2006, p. 76].

Dopo questo breve excursus sulle tappe evolutive che accompagnano gli scrittori alle prime armi, provo a individuare approssimativamente l’approccio che potreste avere al narrare, sulla base di una distinzione fatta tempo fa da Milan Kundera, ossia quella fra “romanzo psicologico” e “romanzo esistenziale”.
Partendo dal presupposto che «tutti i romanzi di tutti i tempi indagano l’enigma dell’io» [Milan Kundera, L’arte del romanzo, Adelphi, Milano, 1988, p. 41], lo scrittore boemo precisa che l’approccio psicologico a tale enigma presuppone lo sforzo dell’autore di dare un ritratto il più possibile realistico di un personaggio, fornendo al lettore il maggior numero di informazioni sul suo aspetto fisico, sul suo comportamento, sulla sua storia passata, sulle sue motivazioni, sul suo ambiente. L’approccio esistenziale, di cui si fa portavoce lo stesso Kundera, considera, invece, nella sua analisi dell’io i temi, gli aspetti e le problematiche che identificano il personaggio nel suo essere: «Cogliere un io vuol dire, nei miei romanzi, cogliere l’essenza della sua problematica esistenziale» [ibidem, p. 50]. Il personaggio non è «una simulazione di un essere vivente», ma «un essere immaginario»: un «io sperimentale» [ibidem, p. 56] utile come laboratorio di esperienze, vissuti, sentimenti per indagare ulteriormente il mistero della psiche umana.
L’impostazione di Kundera comporta, contrariamente agli scrittori dediti alla verosimiglianza dei propri personaggi, un postulato, semplice ma molto forte allo stesso tempo, secondo il quale il «romanzo non indaga la realtà, ma l’esistenza» [ibidem, p. 68].

In base, dunque, a come preferite affrontare la descrizione del vostro e altrui io, sarete più o meno realisti o più o meno fenomenologi; in ogni caso, avrete sicuramente bisogno di alcune indicazioni.
Per l’autrice di gialli Phyllis Dorothy James, ad esempio, occorre innanzitutto «leggere molta poesia, che offre un modo nuovo di guardare la realtà e usare le parole: più ricco e sfaccettato è il vocabolario, più appassionante è il racconto». Inoltre, suggerisce di «usare tutti e cinque i sensi: troppi autori vedono, ascoltano, ma non annusano». Infine, consiglia di «scrivere, scrivere, scrivere, esercitarsi senza troppe teorie» [Antonella Barina, Io, lady omicidi, vi insegno come si scrive un giallo, Venerdì di Repubblica, n. 935, 17/02/2006, p. 77].
La scrittrice americana Flannery O’Connor, partendo dal postulato che la narrativa non è altro che la stesura di una storia con un suo significato “concreto”, afferma che compito dello scrittore di narrativa è quello di presentare una storia nata dall’esperienza e non da una astrazione. In altri termini, lo scrittore deve sporcarsi le mani con quella materia che è il mondo da rappresentare. La storia poi non deve essere un semplice elenco di enunciati descrittivi o di situazioni slegate, ma deve sforzarsi di “incarnarsi” nell’azione, nello svolgimento di un elemento drammatico. La narrativa si basa sui sensi e sul movimento, non sulle idee e sul pensiero. «Ho notato che i racconti dei principianti sono solitamente infarciti di emozioni, ma di chi siano queste emozioni spesso è difficile determinare. Il dialogo procede sovente senza il sostegno di personaggi che sia dato vedere, mentre il pensiero fuoriesce incontenibile da ogni angolo del racconto. Ciò avviene perché il principiante è tutto preso dai suoi pensieri ed emozioni, anziché dall’azione drammatica, ed è troppo pigro o ampolloso per calarsi nel concreto, dove opera la narrativa» [Flannery O’Connor, Nel territorio del diavolo. Sul mistero di scrivere, Teoria, Roma-Napoli, 1993, pp. 60-61].
Contro la tendenza, talvolta così impellente da essere irrefrenabile, di voler ad ogni costo sperimentare nuove forme di scrittura, bisogna sempre ricordare che la funzione fondamentale di qualunque tipo di comunicazione è l’intelligibilità, cioè il messaggio deve essere compreso da chi lo riceve nel modo più chiaro e non ambiguo possibile. Lo stile non dovrebbe essere troppo “soggettivo” o, almeno, non a tal punto per cui l’autore «scrive come se recitasse un monologo, mentre dovrebbe essere un dialogo, nel quale ci si deve esprimere tanto più chiaramente in quanto non si percepiscono le domande dell’interlocutore» [Arthur Schopenhauer, op. cit., p. 91]. Come esempio di sperimentazione ben riuscita forse è meglio prendere Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino, piuttosto che l’Ulisse di Joyce.
Il suggerimento della James di scrivere continuamente, appoggiato anche dalla O’Connor («Credo che l’unico modo per imparare a scrivere racconti sia scriverne, e poi, in un secondo tempo, cercare di capire quel che si è fatto» [Flannery O’Connor, op. cit., pp. 68-69]), non è così banale e – aggiungo – lo sforzo ulteriore da fare dovrebbe essere quello di scrivere a tema, cercando in questo modo di riconoscere i propri limiti e superarli. Non a caso ScrittInediti, prima di assumere l’attuale forma di un blog, proponeva negli anni passati un tema nuovo per ogni numero in uscita, sul quale s’invitavano a cimentarsi gli scrittori esordienti. La creatività va esercitata e spronata con sfide continue e rinnovate. Anche perché, come dice Kundera, «tutti i romanzieri, forse, non scrivono che una sorta di tema (il primo romanzo) con variazioni» [Milan Kundera, op. cit., p. 188]. Per non impigrire il proprio stile è forse utile anche cambiare spesso la persona che narra: non indugiare troppo sulla prima persona singolare, che è la forma moderna della narrazione, ma cercare di scrivere anche in terza persona, che è la chiave classica del racconto.

Vorrei concludere, anche se mi rendo conto che le indicazioni date sono poche e magari vaghe (ma non siamo a un corso di scrittura creativa), suggerendovi di ricorrere a qualche immagine o metafora abbastanza efficace da rimanere impressa, per rendere davvero buona la vostra storia. «La mia regola: pochissime metafore in un romanzo; ma queste poche devono essere i suoi punti culminanti» [Milan Kundera, op. cit., p. 194]. Ricordatevi che, quando nel film Il postino (1994) la madre di Beatrice (Maria Grazia Cucinotta) chiede a quest’ultima che cosa le ha detto Mario (Massimo Troisi) per farla sospirare con aria così trasognata, lei semplicemente risponde: «Metafore».

Libro fai-da-te?

di Manuel Semprini

Autori alle prime armi, desiderate ardentemente vedere il vostro nome risplendere sulla copertina di un libro?
La tipografia costa troppo? Gli editori vi snobbano?
Ebbene, la rivoluzione digitale è oramai acquisita anche nell’editoria, prima con le tecnologie del print-on-demand, che consentono di stampare anche una sola copia di un contenuto digitale (romanzo, agenda, ricettario, album fotografico, etc.) e poi con portali come Lulu.com (in italiano dal marzo 2007) e ilmiolibro.it (creatura nata a maggio di quest’anno), che hanno diffuso – con qualche differenza – la possibilità del self-publishing (ovvero dell’autopubblicazione).
Ti iscrivi al sito, invii il tuo file digitale, scegli il formato, la copertina, la carta e la rilegatura e voilà il libro è pronto per essere stampato a pochi euro. Nel caso di Lulu.com l’acquisto è facoltativo, mentre è obbligatorio per ilmiolibro.it. In entrambi i casi, comunque, può essere messo subito in vetrina perché altri utenti possano comprarlo e, soprattutto, recensirlo.
A quel punto, ai lettori l’ardua sentenza.
Un fenomeno marginale? Non direi visto che ilmiolibro.it, in poco più di sette mesi, ha raccolto una cosa come 23 mila utenti, quasi 3000 titoli e più di 2000 autori. E Lulu.com è stata fondata nel 2002 da Robert “Bob” Young, ex co-fondatore di Red Hat, collezionando milioni di utenti in 80 paesi.
Tutto bello, semplice, veloce, eppure… Eppure qualche dubbio rimane.
Pur essendo vero che la vendita di un libro sottosta al vaglio di altri utenti e che, quindi, la sua fortuna dipende dai giudizi di pari o non dalle promozioni di pochi, occorre ricordare che stampare non equivale a pubblicare. Un libro stampato che non viene diffuso adeguatamente, è un libro morto, invisibile, di nicchia.
Come ammette lo stesso Robert Young in un’intervista (fonte): «Noi non venderemo mai un Harry Potter, non venderemo mai milioni di copie di un solo titolo. Il nostro business è esattamente l’opposto: milioni di autori che vendono qualche centinaio di copie».
E tuttavia, in Lulu.com è possibile acquistare un codice ISBN per poter vendere il proprio libro nelle librerie affiliate al portale, in ilmiolibro.it nascono eventi che coinvolgono, per esempio, la Scuola Holden per premiare fuori dal circuito web un esordiente o il migliore incipit inviato al sito.
Insomma, dietro al paravento della “rivoluzione” digitale ci sono diverse strategie per far sì che uno scritto abbia una ricaduta nella realtà. Una realtà in cui vive e prospera l’editoria, più o meno monopolista, più o meno classica, che si prefigge di rendere pubblica un’opera letteraria. Si tratta di un’operazione, non semplice e non sempre trasparente, che implica un investimento su un autore (editing, promozione pubblicitaria, etc.) allo scopo di un ritorno in termini di vendite. È forse una strada che può apparire datata ed elitaria, ma non neghiamo la verità: essere scelti da una casa editrice per una pubblicazione è pur sempre motivo di orgoglio e di gioia per un povero scrittore neanche tanto emergente. Il suo ego artistico viene abbondantemente gratificato.
Tuttavia, ricordiamoci il rovescio della medaglia: coloro i quali vengono brutalmente rifiutati…

– Le hanno respinto un manoscritto, vero?
– Per la sesta volta.
– Sempre lo stesso?
Fa di nuovo sì con la testa, che finalmente solleva dalla mia spalla. Poi, con un lento cenno del capo:
– Se sapesse quanto l’ho rimaneggiato, ormai lo conosco a memoria.
– Lei come si chiama?
Mi ha detto il suo nome e ho subito rivisto la faccia ilare della regina Zabo che commentava il manoscritto in questione: “Uno che scrive frasi come ‘Pietà! singhiozzò all’indietro‘, o che crede di fare dell’umorismo chiamando Farfouillettes le Galeries Lafayette, e ci riprova per ben sei volte, imperturbabile, per sei anni, di che razza di malattia prenatale soffre uno così, Malaussène? Me lo dica lei”.
(Daniel Pennac, La prosivendola, Feltrinelli Editore, 1990)

Per tutti questi c’è sempre Lulu.com o ilmiolibro.it…

E se mi stampo il mio libro in tipografia?

Fonte: Il Rifugio degli Esordienti (link all’articolo)

Non ditemi che questa idea non vi è mai venuta in mente nel corso della vostra carriera letteraria! A tutti, prima o poi, dopo l’ennesima delusione, dopo l’ultimo esasperante rifiuto da parte di una casa editrice, balena nella mente questa semplicissima domanda. Alla quale, più o meno coscientemente, se ne affiancano altre.

“Che bisogno ho, io, di un editore?”
“Ma perché devo lasciare la maggior parte dei guadagni che potrebbero venire dal mio lavoro di intelletto ad un altro?”

E allora, cerchiamo di dare una risposta a questi possibili quesiti.
Direi che il punto di partenza è la domanda numero due, che può anche essere formulata diversamente:

“Ma che mestiere fa, in pratica, un editore?”

Se ci limitiamo a vedere l’editore come colui che, semplicemente, prende il nostro testo, lo porta in tipografia e lo trasforma così, magicamente, in un libro, in effetti egli ci appare come una figura della quale si può fare tranquillamente a meno.
In realtà il mestiere dell’Editore, e volerlo fare davvero, è ben più nobile e complesso. L’Editore, quello con la “E” maiuscola, è in grado di prendere un prodotto grezzo e di trasformarlo in un oggetto gradevole e vendibile. Il bravo Editore è in grado di agire tanto sul testo stesso, attraverso l’interazione stretta tra i suoi “editor” e l’autore, tanto su parametri editoriali che prescindono dal contenuto letterario, anche se a questo sono legati. Se da un lato l’azione di editing, di correzione degli errori di battitura, di limatura di qualche passaggio poco lineare, interviene direttamente sul testo, ossia sul contenuto, dell’opera, dall’altro il progetto della sua impaginazione, della copertina e della quarta di copertina, la scelta del carattere tipografico da utilizzare, della consistenza e del colore della carta, della modalità di rilegatura ed eventualmente della confezione del Libro, contribuiscono non poco a creare un prodotto editoriale gradevole, invitante e, in fin dei conti, vendibile.
Inoltre, il compito di un vero Editore non si esaurisce affatto con l’uscita dalla linea tipografica del volume stampato. Anzi, probabilmente, inizia proprio da lì. È l’Editore, infatti, a doversi occupare “istituzionalmente” di tutto quello che riguarda la promozione e la distribuzione del Libro. Nel suo stesso interesse, perché è proprio dalla vendita di quei libri che una Casa Editrice sana e credibile deve trarre la maggior parte dei proprio guadagni!

Prima di darvi l’impressione di vivere nel Paese delle favole, è evidente che nella realtà tutto questo avviene molto raramente. Ed è proprio per questo che è molto diffusa la visione comune così riduttiva della figura dell’Editore che è alla base di questo articolo e che induce gli Autori a pensare di poterne fare a meno. Sappiamo benissimo che sono davvero pochi gli Editori che intendono nel modo appena descritto la loro missione. Molti, appagati dai famigerati “contributi per la pubblicazione” estorti in qualche modo ai propri Autori, si limitano davvero a mandare in stampa il testo ricevuto, così com’è, spesso imponendo agli stessi autori anche l’impegno per la ricerca di un’immagine da utilizzare per la copertina.

È di questi editori che, francamente, si può fare tranquillamente a meno. Ma non generalizziamo!

Ma se restiamo convinti che la strada migliore perché il nostro testo diventi un Libro non sia far da sé, ma semplicemente trovare l’Editore giusto, ed assicurarsi che sia effettivamente uno di quelli con la E maiuscola prima descritti, vediamo quali sono le opzioni che restano in mano a chi comunque ha deciso di far da sé.
Va ricordato innanzitutto che, anche se in base alle nuove leggi vigenti chiunque può stamparsi da solo il proprio libro e commercializzarlo (purché riesca a mettersi in regola con Partita IVA e tutto il resto), la maggior parte dei Librai, già normalmente restii a accettare Libri di Autori Esordienti, sono in genere ancora più scettici nei confronti di un libro auto pubblicato, specie se sprovvisto del codice ISBN.
Questo codice, che non è obbligatorio per legge, oggi può essere richiesto da chiunque abbia una produzione editoriale, e quindi in ultima analisi anche dallo stesso autore, ma una volta era ad appannaggio esclusivo degli Editori e quindi, ancora oggi, segna un po’ lo spartiacque tra un libro regolarmente edito e un stampato in casa.
Quindi, prima di andare oltre, è bene che il nostro Autore fai-da-te sappia che, se deciderà di andare avanti col suo progetto di farsi realizzare il proprio libro “a prezzo di costo” da un tipografo, avrà grosse difficoltà a commercializzare quel volume. Lo potrà utilizzare per proporlo in lettura in una veste tipografica migliore ad una vera casa editrice o ad un concorso letterario per inediti, lo potrà regalare a Natale ai propri amici, lo potrà offrire come bomboniera agli invitati alla sua festa di laurea, o come cadeaux ai clienti della propria ditta… Oppure lo potrà vendere in proprio, ma gli sarà molto difficile farlo accettare come una pubblicazione professionale e proporlo ad una Libreria o ad un circuito distributivo classico o alternativo come Danae: neanche l’associazione nata dal Rifugio e che si occupa di promozione e distribuzione di libri editi scritti da Autori non ancora famosi, accetta infatti in valutazione libri sprovvisti di questo codice.

Ma anche se un Autore decide di richiedere e pagarsi in proprio un codice ISBN, dovrà poi fare i conti con i discorsi relativi alla partita IVA, fatturazione, scontrini o ricevute e altri aspetti fiscali: Se lasciate in “conto vendita” il vostro libro ad una Libreria, dovete lasciare in negozio anche una bolla di accompagnamento che giustifichi, in caso di un controllo fiscale in libreria, la presenza di quel libro in quel negozio; e quando, a fine anno, farete i conti con il Libraio, gli dovrete fatturare i libri venduti!

E’ una scelta che si può fare, ma dovete esser pronti a diventare dei piccoli imprenditori!

È importante che questo aspetto sia chiaro a tutti prima di andare avanti perché, una volta chiarito questo punto, la scelta di andare in tipografia può anche essere quella giusta, se lo scopo è compatibile con l’uso che del libro si vuol fare. In questo caso, però, anche la scelta del tipografo va fatta con attenzione, perché anche questo è un lavoro artigianale che può essere fatto con più o meno cura.
Prima di recarsi in tipografia (cosa che, come vedremo, può anche essere fatta via internet, restandosene comodamente seduti in poltrona), proprio perché tra noi e i nostri lettori non ci sarà alcun filtro, è importante che il testo venga messo nella sua forma migliore. Questo, credeteci, non è un lavoro che può essere fatto da soli. Avrete letto e riletto cento volte lo stesso passaggio senza trovare il modo di migliorarlo, siete passati mille volte sullo stesso errore di battitura senza vederlo… Perché pensate che stavolta sarà diverso? OK, state facendo tutto al risparmio e non avete intenzione di pagare un servizio di editing ad un’agenzia letteraria… Ma perché non far leggere almeno il testo ad un vostro amico con la stessa passione per la scrittura, o almeno per la lettura? E perché non approfittare anche del servizio gratuito della Lettura Incrociata che il Rifugio mette a vostra disposizione?
Questa è la vostra occasione di mettere il vostro testo nella forma migliore, non sciupatela per una fretta che non ha alcun senso!
Per la copertina, poi, cercate innanzitutto di non mettervi nei guai scaricando un’immagine da internet, che potrebbe essere protetta da un copyright. Se proprio volete far da soli pensate ad un dipinto il cui autore sia morto da più di cent’anni, o ad una fotografia fatta da voi di un luogo più o meno famoso. In ogni caso non mettete sulla copertina una cosa qualsiasi. Molti dei vostri lettori, anche se hanno ricevuto il libro in regalo, potrebbero decidere se leggere o meno il libro giudicando soltanto in base alla copertina, o a quello che avrete deciso di scrivere sulla quarta di copertina. Se avete un amico che sa disegnare bene, questo è il momento di farlo sentire importante e di chiedergli di disegnare la copertina del vostro libro. Magari dopo averlo letto! Per la quarta di copertina, poi, non promettete quello che il libro non può mantenere: è deleterio! Non spacciate per un thriller mozzafiato un romanzo, anche piacevole da leggere, ma decisamente poco avvincente, non spingete il lettore ad aspettarsi più di quello che troverà: se il libro è buono, se ne accorgerà, ma se le sue attese sono molto alte, anche un buon libro potrebbe non soddisfarlo!
E poi, se avete scelto bene il vostro tipografo, lasciatevi consigliare. Di carta, di processi di rilegatura di stampa policromatica non ne sapete nulla. Seguite dunque i suoi consigli e non state a lesinare sul centesimo. Non avete idea, ad esempio, di quanto faccia “libro” l’utilizzo di una carta non completamente liscia e non completamente bianca, e di quanto faccia invece “effetto fotocopie” o alla peggio “stampante laser” l’adozione di una carta assolutamente bianca, come quella che solitamente utilizzate in ufficio!
Per la scelta della tipografia, avete solo l’imbarazzo della scelta, sia che decidiate di limitarvi alla vostra città, sia che cominciate ad esplorare ciò che ha da proporvi internet. In questo secondo caso troverete diverse aziende che si propongono proprio per il “print-on-demand”, con diverse tariffe e con diverse qualità di prodotto.
Se possibile, prima di firmare un contratto di stampa, chiedete che vi venga spedito un campione gratuito di libro realizzato da loro e che sia il più possibile simile, per tipo di carta, di copertina e di rilegatura a quello che dovrebbe essere il vostro prodotto.