L'autore nell'epoca della Litweb

di Bruno Corino

Negli ultimi due post dedicati al tema “LitWeb”, sono arrivato a queste conclusioni:

1) la cosiddetta “letteratura” generata nel web è “caotica”;

2) in quanto tale, sono saltate tutte le categorie che la critica letteraria tradizionale ha utilizzato e affinato nei confronti della letteratura prodotta su carta;

3) pertanto, non valgono più le procedure, attive e passive, di primo e secondo livello, che portavano al “riconoscimento” del talento letterario.

Per quanto riguarda la procedura attiva che un autore aveva di essere riconosciuto come autore di talento consisteva per un verso dallo “stile”, e, per un altro, dalla “novità” della sua creazione artistica. “Stile” e “novità” erano i segnali intrinseci all’opera in virtù dei quali s’attivava quel “circuito ermeneutico” che ho definito di primo e secondo livello.

Ora, si crede che questi criteri o questi parametri valoriali (almeno nella storia occidentale) siano stati sempre riconosciuti come validi universalmente. In realtà, essi sono emersi di volta in volta nella storia, e non sempre sono rimasti gli stessi.

L’aspetto fondamentale che vorrei sottolineare è che tutti i parametri, i criteri e le procedure messe in atto al fine del riconoscimento sono “generati” dallo stesso medium, ossia emergono dalla sua forma o dal suo meccanismo. La nascita e la diffusione del libro stampato nei confronti di quello manoscritto ha posto gli stessi problemi che la nascita e l’affermazione del web sta ora ponendo al libro stampato.

Prima dell’avvento e dell’affermazione del libro a stampa, nella cultura del manoscritto, per intenderci, erano altre le procedure che attivavano il “circolo ermeneutico”. Senza andare troppo oltre nel tempo, esaminiamo brevemente come queste procedure si attivavano nella cultura chierica dell’Alto Medioevo. Lo sguardo storico, diciamo, ha la funzione di restituire alle cose la loro giusta misura.

La cultura conservativa medioevale si preoccupava di copiare indifferentemente tutto ciò che era stato scritto.

La cultura era intesa come qualcosa di naturale che si svolgeva per accumulazione e sovrapposizione. Il compito dei chierici consisteva nel riprodurre e trasmettere le “memorie” dell’antichità classica e cristiana, senza nulla togliere e nulla aggiungere. Alla loro mentalità era completamente estranea ogni idea di progresso, quale la intendiamo noi oggi uomini moderni. Il “sapere” non era qualcosa che si poteva incrementare e migliorare attraverso un apporto originale e personale, ma era interpretato come una quantità fissa da tesaurizzare sino alla fine dei tempi. Il chierico che copiava un’opera nello scrittoio non avrebbe mai pensato a scrivere su un argomento un’opera originale, tutt’al più si limitava a spiegare, commentare, annotare a margine un’opera tramandata dall’antichità, ed lo avrebbe evitato non perché non fosse capace di scrivere un’opera nuova sull’argomento, ma semplicemente perché la “verità” era già stata svelata e rivelata dai testi “sacri”.

Una qualsiasi opera scritta non era migliorabile, e qualitativamente veniva posta sullo stesso livello di ogni altra qualsiasi opera scritta. Se una collocazione gerarchica v’era tra opera e opera essa veniva stabilita sulla base della distanza/vicinanza alla verità divina o rivelata. In un certo senso, non era la “qualità” intrinseca all’opera letteraria a decidere l’ordine gerarchico, ma il suo contenuto. Tanto più questo s’avvicinava alla verità divina, tanto più in alto era considerata l’opera che lo esprimeva. Ciò che attivava un “circolo ermeneutico” non era certo la qualità del testo o il talento dell’autore, ma la distanza/vicinanza che il contenuto testo mostrava nei confronti della verità divina. Quindi, anche la scelta di duplicare questo o quel manoscritto dipendeva da questa ragione intrinseca all’opera.

Tra un’opera di Platone, ad esempio, e un’opera di Democrito, la scelta di duplicare un testo cadeva senza dubbio sul primo. E all’interno di uno stesso autore valevano gli identici criteri. È chiaro che un’opera di Platone rispetto a un’opera di Democrito aveva molte maggiori probabilità di essere tramandata. Ma in ogni caso non era l’autore ad essere selezionato e replicato, ma il “contenuto” comunicato dall’opera. Era dunque in ragione del contenuto espresso che un autore si vedeva accrescere la sua autorità.

Soltanto quando il “sapere” fu allargato ai “laici” comincia ad emergere nel Medioevo la figura dell’autore moderno. Ma con l’affermazione dell’autore laico entriamo nell’ordine della società borghese. L’utilizzo della carta favorisce la produzione di libri di intrattenimento, cioè di libri non solo di argomenti filosofici o religiosi, ma anche di altro genere, la vita dei santi, storie d’amore cortese, avventure, viaggi, esplorazioni, ecc.

Tuttavia, il libro manoscritto e rilegato restava un oggetto di lusso, che pochi potevano permettersi. In quanto merce richiesta che aveva un suo mercato, cominciarono a diffondersi una serie di laboratori di scrittura, dove una caterva di copisti “laici” trascriveva testi classici e in volgare. La cultura non è più monopolio dei chierici, adesso molti laici partecipano alla sua produzione e diffusione. Essi mostrano di avere sete sia di intrattenersi che di acculturarsi.

L’autorità dell’autore, consolidatasi in epoca precedente, ora si presenta sotto la forma dello “scrittore perfetto”. In questa fase, infatti, le opere maggiormente richieste, e quindi copiate e ricopiate, sono quelle che meglio riescano a incarnare l’ideale del perfetto scrittore. Questo modello viene proiettato sugli scrittori dell’antichità classica. Questa volta l’autorità autoriale non si pone più su un piano teologico, ma su uno scarto temporale: meno l’autore è vissuto nel tempo presente, meglio riesce a incarnare il modello di perfetto scrittore. La ragione sta nel fatto che se un autore è vissuto in un tempo remoto ha avuto meno possibilità di essere contaminato da una cultura barbarica, cioè ha conservato la sua purezza. È sempre in ragione di una distanza/vicinanza che si fonda l’autorità autoriale: un autore quanto più è distante dagli antichi tanto meno vale.

Non è più in nome della verità rivelata che si valuta la grandezza di un autore o di un’opera, ma dalla perfezione dello stile. I grandi scrittori dell’antichità classica sono coloro che meglio riescono a incarnare tale modello. Nel presente, invece, coloro che meglio sanno imitare lo stile degli antichi sono anche coloro che a loro volta possono divenire “modelli” da imitare. Si tratta sempre di porre una distanza/vicinanza a qualcosa che è considerata fondamentale ai fini della affermazione autoriale. Nella temperie umanistica diventa lo stile il fattore discriminante per decretare la grandezza o la nullità di un autore. Lo stile rappresenta la forma in cui si concretizza l’espressione letteraria, e assume un carattere normativo.

Tra Dante e Petrarca, ad esempio, colui che ha saputo meglio “imitare” lo stile degli antichi è senza dubbio il secondo: Petrarca con la sua perfezione formale, con la sua ricerca di un linguaggio splendido e prezioso, diventa a sua volta esempio di raffinato poeta da imitare. È la fedeltà o la vicinanza a uno “stile” canonizzato il criterio che decreta la grandezza di un autore. Pietro Bembo, all’inizio del Cinquecento, riconosce nella gravità e piacevolezza le qualità più evidenti della poesia petrarchesca, imitata in tutta Europa. Un’eco del modello del “perfetto scrittore”, nella nostra tradizione umanistica, arriva fino a Pietro Giordani, il quale vorrebbe che fosse imitato dal precocissimo poeta di Recanati, Giacomo Leopardi: «Lo voglio – scriveva Giordani del suo scrittore ideale – innamorato del Trecento; lo voglio persuaso che il solo scrivere bello italiano può conseguirsi coll’unire lingua del Trecento a stile greco».

Il “circuito ermeneutico” s’attiva nel momento in cui un modello stilistico viene replicato e reinterpretato. La perfezione stilistica di un autore si misura sulla quantità di volte che una poesia o una epistola viene “imitata”: la letteratura umanistica, scrive Giulio Ferroni, si fonda sul principio dell’imitazione e si sviluppa quasi interamente partendo dalle tematiche e dal linguaggio dei grandi scrittori antichi. Dunque, se in epoca medioevale possiamo stabilire la “grandezza” di un’opera dalla quantità di volte che essa veniva “copiata” e “glossata”, sulla base del criterio riconosciuto della distanza/vicinanza alla verità rivelata, in quella umanistica possiamo stabilirla sul numero di volte che essa viene “imitata”, sulla base cioè della distanza/vicinanza al modello stilistico da imitare.

La nascita e la diffusione del libro a stampa va saltare questo criterio gerarchico. La possibilità di poter riprodurre in maniera standardizzata le copie di un medesimo testo trasforma il libro da oggetto raro a oggetto di largo consumo. Con la produzione di libri in serie si riesce a raggiungere un pubblico enormemente più vasto di quello avvicinabile con i manoscritti (Ferroni). Nasce un pubblico anonimo che l’autore non può in alcun modo identificare.

La produzione di libri si moltiplica in maniera vertiginosa. Di fronte a questa eccessiva produzione, i modelli classicisti vanno in crisi. Gli uomini di lettere s’arroccano sulle proprie posizioni tradizionali, non riescono a capire la grande rivoluzione mediatica che la diffusione della stampa sta provocando nel mondo letterario. Alcuni autori continuano ad affidare i propri testi al manoscritto, e percepiscono tutta quella massa di libri a stampa come fattore di disordine sociale e culturale. Cominciano a diffondersi vere e proprie tecniche di censura che vengono sempre più istituzionalizzate e codificate.

Gli autori di maggior successo, soggetti alla legge di mercato, diventano coloro che più s’avvicinano al “gusto” del pubblico, che meglio sanno crearsi uno “stile” originale che li identifichi o li rende riconoscibili. A fronte di quella uniformità stilistica che aveva caratterizzato gli scrittori umanistici, si diffonde una pluralità di stili. Il monostile, cioè l’idea che i perfetti scrittori debbano scrivere seguendo norme canonizzate, persisterà a lungo nella produzione letteraria, favorito dalla sopravvivenza di antiche strutture sociali, di abitudini e mentalità, ma a diffondersi sarà d’ora in avanti la ricerca di uno stile personale, di uno stile che caratterizza in modo inequivocabile la forma espressiva di un autore.

Ogni autore proverà a differenziarsi dalla massa degli altri autori attraverso la ricerca di un proprio stile che possa identificarlo. Questa ricerca è favorita anche dalla moltiplicazione dei generi letterari che la straordinaria produzione libraria inevitabilmente mette in atto. Inoltre, bisogna considerare che il “gusto” del pubblico è mutevole, insegue mode e tendenze, è un gusto che si lascia guidare dalla “novità”. Quindi, un autore per interpretare il nuovo gusto che si va delineando nel pubblico deve essere addirittura in grado di saperlo “anticipare”, voglio dire sarà lo stesso autore a porre la sua opera come qualcosa di innovativa. Si interrompe dunque il rapporto che fino alla invenzione e diffusione della stampa gli autori avevano intrattenuto con la tradizione.

Un autore non fonda più la sua legittimazione letteraria aderendo a dei modelli o a uno stile canonico ereditati o trasmessi dal passato, ma a una fedele rappresentazione della realtà presente, la novità, in sostanza, appartiene al presente. È in questa svolta, secondo me, che possiamo individuare la nascita di una letteratura moderna, o l’inizio della stessa modernità, poiché è nell’idea stessa di letteratura che s’installa il concetto di innovazione. Come ha illustrato Niklas Luhmann, nelle diverse forme di narrazione mediale si produce un “raddoppiamento della realtà”: da un lato l’esperienza reale dell’osservatore/lettore, e da un altro l’osservazione della narrazione, che, pur ponendosi come una realtà fittizia chiusa e autonoma, trae plausibilità da se stessa, dal proprio modo di raccontarsi. La finzione si autonomizza rispetto alla realtà fattuale, generando un proprio mondo “reale”. Questa realtà fittizia, narrata nei romanzi, richiede il “distacco” di un lettore critico che sa transitare tra la realtà e la finzione.

La moltiplicazione degli stili e la ricerca continua di opere che innovano il panorama letterario fanno emergere l’esigenza una classe di lettori “specialisti” che sa mettere ordine in questa realtà caotica. In sostanza, nasce la figura del critico e dello storico della letteratura, il quale s’assume il compito di assegnare gerarchia sulla base della sua formazione culturale. Questa volta l’affermazione autoriale è decisa dalla distanza/vicinanza che l’autore o l’opera ha nei confronti dell’idea praticata e teorizzata dallo storico e critico della letteratura, cioè quelle opere che meglio corrispondono alla concezione che il critico ha della letteratura avranno un maggior rilievo. Quindi, la grandezza o la pochezza di un autore passa attraverso la certificazione autoriale del critico. Tutto questo è rimasto valido fino alla fine del Novecento.

La diffusione di Internet ha nuovamente sconvolto il panorama letterario. Nella rete si moltiplica siti dedicati all’espressione poetica e letteraria. Definiamo brevemente tali siti come “litweb”, ossia letteratura generata nel web, diversa da quella che viene veicolata dal web. La facilità d’accesso ha moltiplicato in maniera esponenziale la presenza di nuovi autori. Sarebbe facile definire tutta questa litweb come semplice “spazzatura” e chiudere qui il discorso. D’altro canto, sarebbe anche difficile, se non teoricamente impossibile, anche per un critico letterario tradizionale armato di buona volontà muoversi all’interno di questa realtà caotica e in via di espansione per assegnare gerarchia o mettervi ordine, non solo sarebbe un compito impossibile, ma credo anche del tutto inutile.

La velocità con la quale compaiono nuovi autori costituisce una prima difficoltà oggettiva che impedisce di prendere seriamente in esame questa litweb. Il critico tradizionale si trova già in grandi difficoltà ad esercitare il suo mestiere quando si tratta di letteratura stampata, che a modo suo a monte trova comunque una barriera selettiva, figuriamoci allora cosa può provare nei confronti di questa litweb che prolifica a ogni istante.

Allora, bisogna rassegnarsi e dire che non è più possibile che emergano criteri che assegnino ordini e gerarchie in tutto ciò che appare in questa litweb? Che il web in quanto medium accessibile a tutti pone tutto sempre su un piano orizzontale e non permette al suo interno alcuna gerarchia? Che proprio a causa della sua natura “democratica” il web non può mettere in atto nessun criterio di differenziazione? Dunque, siamo arrivati alla fine della possibilità di individuare un criterio che differenzi un autore da un altro autore nell’epoca?

Qualcuno obietterà che anche nel caso del litweb un autore potrà differenziarsi da un altro sulla base dello stile o della sua capacità di essere innovativo. Se esiste questo qualcuno allora vuol dire che non ha compreso a fondo la “rivoluzione” imposta dalla litweb. Senza dubbio ci sono autori che scrivono in modo diverso rispetto ad altri autori, ma proprio in ragione del fatto che ognuno scrive in modo diverso rispetto all’altro che la diversità stilistica non rappresenta più un codice di riconoscimento. Anzi, adottare un unico stile per differenziarsi dagli altri autori nel litweb si trasforma in qualcosa di controproducente, in quanto, dopo un po’, anziché destare interesse finisce con l’annoiare. Da questo punto di vista, un autore per differenziarsi da un altro autore deve continuamente cambiare e modificare stile, insomma deve essere adottare una molteplicità di stili. Sarà la variazione e la molteplicità di stili a rendere più attraente un autore. La novità, in sostanza, il lettore/web non la individua più in ciò che l’autore scrive, ma nel modo in cui la scrive: si tratta, insomma, di quella rivoluzione stilistica che Raymond Queneau aveva intuito nel suo Esercizi di stile. Ogniqualvolta un autore “posterà” un suo scritto, che si tratti di poesia o racconto, userà uno stile diverso da quello usato nell’ultima poesia o racconto.

La riconoscibilità non passa più, come accadeva nell’opera a stampa, attraverso l’unità stilistica dell’autore, che diventava il suo contrassegno per differenziarsi da tutti gli altri autori, ossia la sua cifra, bensì passa attraverso la sua molteplicità. Tuttavia, il lettore/web ha la possibilità di poter ricondurre quella molteplicità all’unità del nome dell’autore.

A questo punto è il “nome” dell’autore (o il suo avatar) che diventa il contrassegno della sua riconoscibilità. Ad esempio, nella letteratura a stampa ha senso parlare di uno “stile gaddiano”, nella litweb non ha più senso parlare di un “stile coriano”, perché la scrittura di Corino non è più riconducibile a un’unità stilistica.

Quindi, riassumendo, nella prima forma mediale, il manoscritto su pergamena, attraverso il contenuto si risaliva al nome dell’autore; nella seconda forma mediale, il manoscritto su carta, ciò avveniva attraverso lo scarto temporale; nella terza fase, ciò avveniva attraverso una fedeltà ad uno stile canonico; nella forma mediale del libro a stampa, attraverso l’affermazione di uno stile personale e ben individuale; nell’attuale forma mediale del web ciò avviene attraverso il nome (o l’avatar). Il nome stesso diventa dunque il marchio di riconoscimento.

A quel punto come fa quel nome ad entrare in un ordine gerarchico? Questo, come ha intuito uno scrittore della litweb, il Moscone, avviene attraverso la funzione dei motori di ricerca: quando s’iniziano a digitare le prime lettere del nome dell’autore/web cercato, se dopo le prime lettere compare subito, vuol dire che i suoi link sono molto cliccati. Oltre a ciò un motore di ricerca fornisce anche il numero di link che riportano a quel nome. Quindi, più link ci sono connessi al nome dell’autore più quel nome sale nella gerarchia di quel motore di ricerca. Ma come si moltiplicano i link connessi all’autore? Si moltiplicano quanto più quel nome è linkato nella rete. Più quel nome viene ripreso da altri siti o altri blog è più esso circola nella rete, più circola nella rete e più viene linkato. Ecco come s’attiva il processo ricorsivo nella rete. Ma per quale ragione i siti e i blog dovrebbero linkare quel nome? Semplice: perché intorno a quel nome si sta “creando” un alone mitologico. Per rendere chiaro ciò che sto illustrando, faccio l’esempio di un nome, che sebbene con la litweb non ha nulla a che spartire rende bene l’idea del mio discorso, quello di Spider Truman. Questo nome è comparso nella rete il luglio scorso, immediatamente è stato ripreso dai blogs e altri siti; intorno a esso si costruisce tutta una mitologia che alimenta la sua fama; poi viene ripreso da altri media, stampa e televisione, che funzionano da cassa di risonanza. Nel giro di una o due settimane basta cominciare a digitare le prime quattro lettere SPID… che il suo nome compare immediatamente in cima alla lista dei link.

A questo punto capite bene che non è più il numero di volte che un post viene cliccato all’interno di un sito litweb a differenziare la qualità di un autore rispetto a un altro, bensì è il numero di link che riprendono il nome di quel autore. La differenza viene decisa non dal click ma dal link: un autore può postare la sua bella poesia romantica e sentimentale ed essere cliccato centinaia di volte, ma se quella bella poesia non è linkata, ossia ripresa nella rete, dopo un po’ di tempo è destinata a cadere in un profondo oblio. E se, invece, una poesia viene linkata non è solo perché si tratta di una bella poesia, ma soprattutto perché intorno al nome dell’autore la rete sta creando una mitologia, ossia una narrazione.

Variazioni sopra un verso di Marino Moretti

di Bruno Corino

Da giorni c’è un verso che mi martella nella testa, Piove. È mercoledì. Sono a Cesena, trattasi famoso incipit A Cesena nella raccolta Il giardino dei frutti di Marino Moretti…
…non è un bigliettino appiccicato dal poeta al fine di informare sua cara famigliola pessime condizioni meteorologiche Cesena – stop – o dir o far saper luogo ove trovasi giorno mercoledì – stop – …
Ecco, non è un’informazione, non è una notizia diffusa a privato uso…
Eppure, se qualcuno, dopo anni dalla sua morte, avesse trovato tra le sue carte un bigliettino con su’ scritto Piove. È mercoledì. Sono a Cesena senza conoscere seguito non avrebbe mai saputo se in realtà fosse verso/disperso o foglietto sperso, “postit” d’altri tempi insomma… dubbio avrebbe arrovellato la di lui coscienza: inizio di un verso, aborto poetico? O altro? Trattasi, semplicemente, di messaggio scritto sul primo fogliaccio capitatogli tra le mani?
Chissà….
In mancanza di contesto specifico, quell’enunciato rimarrebbe esposto a limbo ambiguità, in eterno: è informazione o “altro”? Questione indiscernibile… direbbe il Leibniz teutonico…
Ma noi sappiamo che non è un’informazione. Sappiamo che il poeta non voleva comunicare a suoi parenti et amici ove trovassesi quel giorno e che tempo facesse a Cesena. Sappiamo, appunto, che è il primo verso di nota poesia. Assodato che trattasi di verso di famosa poesia, cosa comunica suo Autore? Niente! Come niente? Marino Moretti, lui di persona, uomo nato a Cesatico nel 1885 e vissuto tra città natale e Firenze, firmatario del manifesto antifascista di don Benedetto Croce, etc. etc. purtroppo non comunica niente… O che blasfemia dice cotesto omo?!? Forse che non pare abbastanza evidente che il succitato poeta comunichi sua crepuscolare malinconia? C’è tutta: la pioggia, la sorella sposa, il grigio borgo, la tristezza, l’ombra grigiastra, etc. etc. insomma che te tu vuoi di più? Che ce lo scrivesse a tergo: “poesia melanconica”?
Calma, calma, buonuomo, io ti dico che Moretti – Autore esterno – non comunica niente, anzi forse il giorno che buttò giù i primi versi il poeta, l’uomo era allegro e gaio come non gli capitava da tempo perché rapito da forte demone creativo. Non ho le pruove, ma capisci cosa intendo dire? Intendo dire, lui, Marino, la persona non c’entra un bel niente. Te lo assicuro. A Cesena non mi parla della di lui malinconia, ma della Malinconia. Se lui voleva parlare della malinconia a sé o a qualcuno avrebbe scritto qualcosa di questo tipo: “Sono a Cesena, in visita a mia sorella da poco sposatasi.. come è triste questa città… poi oggi che è mercoledì piove pure, etc. etc.”. Vedi, buonuomo se lui avesse voluto parlare della sua malinconia si sarebbe più o meno espresso in questi termini, certamente più raffinati dei miei, ma il tono non sarebbe cambiato di tanto… lui avrebbe informato qualcuno di come si sentiva quel giorno, e in quell’ora, ne avrebbe spiegato le ragioni, se ne aveva voglia, per filo e per segno… e se poi, a distanza di anni avessimo letto questa lettera avremmo saputo come Moretti si sentiva quel giorno… ma in fondo, a pensarci bene, a me o anche a qualcun altro come si sentisse quel giorno il tal Moretti non sarebbe importato un bel niente, che l’avesse scritto in verticale o in orizzontale! Chi non ha avuto la giornata uggiosa? Chi non s’è sentito oppresso da un senso di malinconia o di solitudine almeno una volta alla settimana nella vita? Non ci trovo nulla di strano, nulla di interessante. Insomma, il poeta, l’uomo non m’informa su un suo stato d’animo quando decide di scrivere un verso, l’Autore non mi comunica un bel nulla. E se lo facesse gli risponderei: senti fratello, puoi chiamarti anche Moretti Marino, ma io ho già tanti guai che non mi va d’ascoltare i tuoi anche se me li metti in versi o in prosa! Avrai pure una vita interessante, piena di emozioni, ma ne parliamo a cena magari attorno a un calice di vino amaro!

Sono a Cesena,
in visita alla mia povera sorella sposa,
e piove, e ciò rattrista il mio animo,
…………………………………….

Se tu Moretti avessi scritto questi “melanconici” versi, e m’avessi chiesto: “Senti come sono malinconici questi versi?”; io t’avrei risposto: “Ti sbagli, Marino, questi versi non sono affatto malinconici, forse lo eri tu mentre li buttavi giù. Vedi, Marino, in questo sono un po’ kantiano: non è perché tu mi parli per iscritto di monete sonanti, io ne sento il suono, così: non è perché tu mi parli in rime di malinconia io ne odo il timbro. Il concetto è così semplice che lo capisce anche un bambino. Non ti pare?”.
Ma che vai cianciando, diamine! Egli mi parla di Cesena, della sua sorellina, de’ “il nonno ricco del tuo Dino”, insomma, mi parla delle cose della propria vita! È vero, è vero, è tutto vero, ma non ha importanza, può darsi pure che il Moretti fosse figlio unico (si fa per dire), la qualcosa non cambierebbe punto. Son cambiati i tempi! Tutto qua. Il buon Cesarotti o il divino Metastasio t’avrebbe parlato non di sorelle o amanti sue, ma di Aminta, Megacle, Licida, Alcantro, Aristea; non senti che nomi belli? Magari sotto le vesti antiche di Argene, il Trapassi ci vedeva i moti e gli affanni della sua ultima amata, il dolor del suo commiato e il rapido furtivo bacio, e da poeta esperto avrebbe detto dell’Amor e dell’Amicizia, con eleganza e, secondo il suo consueto stile arcadico, li avrebbe messi assieme in scena, travestiti da due pastorelli. Allora, che vuol dire? Il Trapassi non aveva le giornate tristi? Non era anch’egli uomo come il Marino?
Ma la poesia è sfogo, è anima che si proietta in parole, è manifestazione di stato d’animo, è umore… vale a dire, invece di ingurgitare sana camomilla, e aspettar che il manifestato umore passi o cessi è meglio scriverci su’ quattro versi? Fa bene al tuo organismo spurgare in versi il cattivo umore? O bene! Allora, fallo, spurga, sputa fuori la tua gioia o la tua delusione, mettila pure in versi o in rime, ma ciò non toglie che infine trattasi di “sana” terapia, di “cura” alla tua malinconia, e se funziona, intendo dire se ciò alla fine ti guarisce, ti solleva l’umore, ti provochi effetto catartico, fallo e fallo pure bene se ti riesce. Ma non restarci male quando il tuo lettore non si commuove, non rimane scosso dal tuo terapeutico sfogo! Ma come t’ho parlato di un bimbo a cui sfugge di mano un aquilone a significare quando la vita sia crudele nei confronti di chi è fragile e tu non ti commuovi? O sei un insensibile o non capisci un tubo! Volevi che ci mettessi anche un cane per moltiplicare l’effetto? Ma no, dico io, è che me lo potevi dire anche a voce! Se trattasi di storia inventata o immaginata non vedo il motivo del perché commuovermi, se trattasi di storia vera capitata a tuo figliolo mentre correa sulla spiaggia, t’avrei risposto: “Mi dispiace… per il dolor provato dal bimbetto”, cioè t’avrei manifestato tutta la mia commozione per l’accaduto, così come avrei fatto nel caso in cui tu m’avessi comunicato scomparsa di tuo parente affine…
Vedi, per dirla brutalmente, a me del contenuto non me ne frega niente! Che sia bello o brutto è uguale. Che Moretti sta a Cesena, un mercoledì qualunque in visita a sua sorella a me sinceramente non importa niente! Ciò che a me importa è la poesia A Cesena e non Moretti che neanche conosco!
Insomma, in questa poesia si mette in moto all’improvviso quel processo descritto da Mario Luzi secondo il quale un vocabolo comune (Piove), una qualunque parola (Mercoledì), legandosi ad altre quasi con algebrica precisione, crea un circuito che brucia tutta la quotidianità! In questo “bruciare” muore il “segno linguistico”, quello usato ai fini della comunicazione pragmatica, quel segno brucia perché, appena buttato dentro il fuoco della comunicazione pragmatica, immediatamente si consuma, come un pezzetto di carta, dopo aver assolto il suo compito: “Mercoledì sono a Cesena”, sms comunicato da amico ad amica, appena assolve sua funzione informazionale cessa di esistere, finisce nel cimiterio delle cose dette o scritte, svanisce. Altro è segno linguistico quando supera soglia del livello pragmatico, e non absolve compito di comunicare proprio moto d’animo: in questo andare oltre limite, come insegnano valenti semiologi, nasce surplus di comunicazione letteraria per cui il segno si configura come ipersegno. È ipersegno che guida autore implicito nella suddetta lirica, e non autore reale a guidare segno come capita comunicazione pragmatica. E trattasi di ipersegno poiché i «“significanti” in poesia, se, da un lato, rimandano pur sempre ai ‘significati’, dall’altro si costituiscono invece come entità autonome e, al limite, depositarie esse stesse di senso» (S. Agosti). In poesia o testo letterario ogni “significante” rimanda a complessa articolazione di significanti supplementari: fonetici, timbrici e ritmici. Quindi, cambia completamente statuto del segno. Siamo su un altro piano, non più quello della comunicazione pragmatica, ma letteraria: su questo piano il segno non è più “tocchetto” che arde in veloce combustione, ma potenza, forza che si sprigiona ogniqualvolta gli si dà voce. Recitato in mille modi, reiterato più e più volte, testo letterario aumenta sua potenza, sua combustione, suo valore: nulla si consuma, nulla si distrugge, ma tutto si compie.

Web e letteratura

di Bruno Corino

Non mi occupo di quella letteratura che va a finire sul web, bensì mi occupo di tutta quella “letteratura” che viene generata nel web. La prima è letteratura cartacea che viene veicolata dal web; la seconda, invece, è letteratura che in linea di massima non è stata generata da un supporto materiale, bensì virtuale. Sulla base di questa differenza mi pongo delle domande. In primo luogo che fine faranno domani le cattedre di letteratura contemporanea nell’epoca dell’èra digitale? Resisteranno? Resteranno in piedi e continueranno a dar da mangiare ai circa quattrocento docenti insediati nei loro fortilizi? Inoltre, questo fenomeno che sviluppi avrà in futuro?
Quando mettiamo piede in una libreria qualsiasi possiamo confortarli e dire: non vi preoccupate, la migliore letteratura passa ancora al vaglio del supporto materiale. Vedete come ancora tutti i romanzi, i racconti e le raccolte poetiche stanno lì tutti accatastati e ordinati in ordine alfabetico o di case editrici? Consolatevi, dunque, consolatevi. Ma cosa rappresenta effettivamente quel mondo cartaceo? La punta di un iceberg, perché poi accanto o sotto quel mondo fatto di carta c’è tutta una moltitudine di aspiranti scrittori, poeti e narratori lasciata fuori dalla porta.
Questa immensa moltitudine, come nuova orda barbarica, preme sui limes dell’editoria. Molti di loro non aspettano altro che d’essere “civilizzati” e acquistare finalmente la cittadinanza “editoriale”, essere, dunque, convertiti alla logica dell’imperio editoriale. Solo così possono anche sperare di essere domani oggetto di programmi di cattedre universitarie. Il potere d’attrazione che l’imperio esercita sulle menti di questa orda barbarica è forte. Essere cooptato da questo imperio vuol dire vedersi “consacrati” nel novero dei nuovi autori, far parte, finalmente, di quella schiera di Autori il cui valore viene alfine riconosciuto. Da quel momento, se l’Autore mostra d’avere talento vero, egli potrà vivere del suo “mestiere”. E se sa promuovere bene la sua immagine, potrà guadagnare altrettanto bene.
Voi pensate che tra un Autore consacrato e un neobarbaro ci sia un fossato incolmabile, un divario incommensurabile dal punto di vista qualitativo. Se il primo è stato consacrato e l’altro, invece, rimane fuori dal limes, si dirà, una ragione valida ci sarà. Allo storico e critico della letteratura contemporanea questa ragione non interessa affatto. La sua figura proviene dallo stesso mondo editoriale. La sua funzione culturale è nata proprio dal bisogno di mettere ordine all’interno di quel mondo, di costruire gerarchie, di assegnare posti, di porre processi di identificazione e di differenziazione, di far emergere affinità o diversità tra i vari autori, le varie poetiche, di sottoporre ai rigori dell’analisi storica le strutture, le forme o i generi letterari, analizzarne le trasformazioni, le mutazioni, sottolinearne la genesi e lo sviluppo. Il critico e lo storico della letteratura ha tutta una tradizione secolare alle sue spalle. Le sue certezze e le sue sicurezze. E soprattutto quella tradizione ha avuto le sue radici e la sua ragion d’essere nel campo del libro stampato. La stessa filologia proviene dal quel mondo.
Fuori da questo mondo c’è caos, rumori di fondo, balbettii: tutta una sterminata produzione “letteraria” che appare sul web, ma che nessuno critico e storico della letteratura la classificherebbe mai con tale nobile titolo. Potrei anche scrivere che è “letteratura” per autocertificazione, cioè perché ogni autore che “posta” il suo racconto, lungo o breve, la sua poesia, la autoetichetta come tale. Attenzione: non la classificherebbe mai come tale perché qualitativamente inferiore rispetto a quella che viene veicolata dalla carta stampata, bensì perché non la prende minimamente in considerazione. Intendo dire, dare un minimo di giudizio, ad esempio “qualitativamente inferiore o infima”, significherebbe averla almeno in parte analizzata o esaminata. Il motivo del rifiuto comunque non è da individuare in una sorta di snobismo che questi critici della letteratura hanno nei confronti di questa produzione che si autocertifica come tale. Lo snobismo sarebbe comunque sintomo di un qualcosa di cui hai avuto sentore. La chiusura, potrei dire, è dovuta proprio a ragioni intrinseche a tale produzione “letteraria” esplosa sul web: praticamente sono saltati tutti i criteri parametrici con i quali questa lunga tradizione ha da sempre esaminato le opere letterarie.
È saltato, ad esempio, il contesto autoriale: chi è che scrive? Quale la sua storia, i suoi studi, qual è la sua provenienza geografica, la sua storia, ecc.; quindi, è saltato il criterio del paratesto: note, informazioni addizionali sull’opera e l’autore, commenti, ecc.; è saltato il criterio dell’avantesto: il processo di genesi e di sviluppo dell’opera; è saltato il criterio dell’intertestualità: la possibilità di collegare il singolo testo di un autore al complesso della sua produzione; è saltato il criterio filologico; la possibilità di individuare le variazioni subite da un testo nel corso del tempo (la funzione “modifica” di un testo non lascia tracce delle variazioni apportate); ecc. ecc. Sono saltate, in sostanza, tutte le dimensioni entro le quali il criterio e storico tradizionale si muove.
Insomma, se questi non si avventura nella “letteratura” generata nella pagina virtuale è perché si trova a disagio in un mondo dominato dal caos più totale.
Il criterio in base al quale il critico letterario discrimina tale “letteratura” non è quello della qualità, ma quello della caoticità, la quale gli fa perdere di vista tutte le coordinate entro le quali finora s’è mosso. Tuttavia, il fenomeno, esploso in questi ultimi anni, ormai è sotto gli occhi di tutti; è sufficiente dare un’occhiata alla proliferazione di siti, dedicati specificatamente alla narrativa e alla poesia, che stanno emergendo in maniera esponenziale. Ma non solo ai siti, anche ai blogs dove si “postano” quotidianamente migliaia e migliaia di “opere” poetiche. Senza entrare nel merito della qualità di ciò che viene “postato” (d’altronde, lo stesso discorso potrebbe valere anche nel caso del supporto materiale), senza dubbio il fenomeno non può essere a lungo ignorato. All’inizio magari tale fenomeno sarà oggetto di studio della “sociologia dei fenomeni letterari”, ma, prima o poi, vedrete che nasceranno nuove cattedre intitolate alla “letteratura dei newmedia”, che vanno al di là della specificità prettamente sociologica, come finora si sono configurate. Inoltre, non è difficile prevedere che, man mano che il fenomeno si diffonderà e si consoliderà nel tempo, nasceranno siti letterari molto più selettivi che punteranno sulla “qualità” dei testi, il cui accesso quindi, da parte di un autore, sarà quasi equiparato alla promozione in campo editoriale.